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Il quindici settembre

Né a Wimbledon né a Basilea, Roger Federer si ritira in un giorno qualsiasi.

Né a Wimbledon né a Basilea, Roger Federer si ritira in un giorno qualsiasi.

Forse andrebbe detto che non è morto nessuno, anche se immaginiamo le processioni, le candele, i sospiri, il com’era bello il tennis al tempo di Federer. Le lacrime. Come vi diranno tutti, come sapete meglio di tutti, questi 24 anni – che con una precisione solo parzialmente svizzera la Sua Graziosa Maestà Roger Federer ha tenuto a ricordare, in un messaggio che non si è discostato poi così tanto dalle dichiarazioni degli ultimi 20 anni – sono stati il lento, e tuttavia impetuoso, dipanarsi di una storia che non può altrimenti definirsi che d’amore. 

Complice quel paesucolo di provincia che è diventato il mondo, un ottimo giocatore di tennis è asceso al cielo, letteralmente viene da dire, visto che persino sulla Piazza Rossa a Mosca campeggiava in alto, tra San Basilio e le mura del Cremlino, una sua spaventosa gigantografia che potevi guardare solo con il naso all’insù. A caldo non è tanto il tempo delle spiegazioni, se quell’ombra maligna – “non credo sia colpa mia” commentò quando gli dissero del suicidio di Wallace – o quell’eleganza classica dei movimenti, con il corpo che rispetta sempre le proporzioni greche o la mano fatata o o o, continuate pure voi, sia stato l’elemento determinante. Tutto insieme, la semplice soluzione, quel miscuglio di invincibile fragilità o di fragile invincibilità, di ossimori si nutre l’epica, pure quella spicciola di uno sport tutto sommato minore. E quindi il contrasto tra il fuoco che sembrava sputare fuori dal centre court, dalla Rod Laver Arena, dall’Artur Ashe, dallo Chatrier persino, dove giocò una delle partite più belle che il tennis abbia prodotto, e il gelo, il noiosissimo gelo delle conferenze stampa, in cui ogni parola poteva pesare troppo quindi meglio lasciare gli orpelli al campo, lì tutto è permesso. 

Col tempo ci si è nutriti di aneddoti; ‘inutile paragone con un Dio a scelta, che figurarsi poteva avere quel dritto quindi a che serviva?; i momenti-Federer, quando vedevi un colpo e pensavi che no, non si può fare davvero, e che se quello era tennis allora quello che giocavano gli altri cos’era?; gli “oh” di come tutti sono, siamo, diventati groupies, fino a vergognarcene, almeno quelli che hanno mantenuto una qualche forma di distanza da sé. Ma se spesso a prevalere è stato un fondamentalismo per fortuna incruento ancor più che ridicolo – anche se non si sa mai – non ci sogneremo di addossare le colpe al dio che si concedeva con generosità, che si mostrava umano perché noi tutti “possiamo piangere come Roger. Peccato non poter giocare come lui” disse un meraviglioso Andy Murray, forse l’unico davvero vicino, quello che non ha mai sofferto la sindrome dell’abbandono come Djokovic soprattutto, ma anche Nadal, amato solo quando tutto si è avvicinato alla fine.

Il declino è stato di una lentezza esasperante, sembrava tutto finito già nel luglio del 2009, quando un interminabile quinto set regalava il quindicesimo slam contro quel Roddick stizzito più dalla dichiarazione del post partita, quando Federer osò paragonare la delusione dello sconfitto con quella patita l’anno precedente. Un Nadal fuori uso, un Djokovic perso alla ricerca di un servizio decente, una concentrazione singhiozzante che gli fece regalare un titolo al buon Juan Martin del Potro, l’unico ovviamente. E quando a Parigi vinse forse la partita più cara ai suoi tifosi, quella che Djokovic vendicherà più volte restituendo tutta la delusione di quel venerdì di giugno, la seconda resurrezione lo condusse ancora in testa al mondo, appena un anno dopo. Di nuovo, in molti quasi implorarono la fine, a 31 anni si erano ritirati Sampras, Edberg, McEnroe non vinceva da anni, Borg figurarsi. Cosa ci faceva in mezzo a gente sei anni più giovane? 

Lo vedemmo insistere senza capire perché, attraversare quel penoso 2013, con le sconfitte contro Delbonis, Brands, Robredo santo cielo, Robredo allo Us Open. Sembrava quasi un’implorazione, ora basta dai, smettiamola. Ma appunto, come recitava un altro adepto, stavolta dio non aveva mandato giù il figlio, capace di risorgere una sola volta, e quindi la terza resurrezione arriva alla finale di Wimbledon, a quel quarto d’ora verso la fine del quarto set in cui si corre a riscrivere un articolo perché c’è un altro miracolo da raccontare, sempre senza lieto fine ma davvero importa? Superato il figlio di dio, tocca a Napoleone, due volte nella polvere e due sull’altar è troppo semplice, arriva persino la quarta resurrezione, dopo sei mesi a sistemare il ginocchio, a Melbourne ecco ancora “la gloria, maggior dopo il periglio”. Ancora la rincorsa, ancora Wimbledon, ancora il numero 1, ancora Djokovic a ricacciarlo a Sant’Elena. 

Stavolta Woody Allen dovrà rassegnarsi: quello svizzero non ce l’ha fatta, forse non è vero che non è morto nessuno. 

E ripensò le mobili
Tende, e i percossi valli,
E il lampo de’ manipoli,
E l’onda dei cavalli,
E il concitato imperio

E il celere ubbidir.  


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