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A New York la Working class non va in paradiso

Ah, New York, la città dove la sera quando ci si incontra per bere il Manhattan d’ordinanza (magari con mezzo Lexotan, come lo gradisce il maestro Ferretti)  si domanda al compagno di bevuta: “Hai visto il tennis ieri sera?”. Perché, per gli americani, lo US Open è il tennis, con l’articolo determinativo avanti. Anche se gli americani di New York non seguono abitualmente il tennis, si lasciano comunque trasportare nello spettacolo che va in scena nelle due settimane che segnano la fine dell’estate, fra agosto e settembre, e che vanno in scena al Queen’s, fuori dalla zona dell’upper class della Grande Mela. Spesso si inizia a guardare il torneo mentre si è in vacanza, e si finisce a dividersi tra l’ufficio e l’Arthur Ashe per godersi gli ultimi turni. Dei quattro tornei maggiori, gli Slam, quello americano è sicuramente quello che si gioca nella città più cosmopolita del mondo. Bisogna fare quindi bella figura, perché ci sono gli occhi del mondo a guardare i campi. Bisogna fare bella figura perché è l’ultimo Slam dell’anno, il torneo che può segnare le sorti dell’annata, nel bene e nel male.

Anche la pattuglia dei Tennisti Operai, quella dalla forte attitudine alla resistenza da fondo campo, perpetrata con alti top spin e continui rimandi di palla dall’altra parte della rete, come a scaricare la responsabilità del colpo all’avversario, è chiamata a chiudere dignitosamente la scena. Il primo turno, però, non è andato molto bene. Dopo il primo round, il bilancio del partito dei Tennisti Operai è negativo. Colletti Bianchi, Amministratori Delegati di multinazionali, Quadri societari con studi di alto profilo (e botte da fondo campo niente male), nella città più classista delle quattro dei tornei maggiori non hanno fatto prigionieri: tante vittorie e pattuglia operaia decimata alla vigilia del secondo turno.

Meno male che c’è lui, uno degli ultimi operai di una volta – spagnolo, ovviamente – con tanto di tessera numero 1 di Podemos in campo. Uno che un paio d’anni mise a nudo Roger Federer, praticamente mandare a vivere Donald Trump al Queen’s e costringerlo ad ammettere che sì, quello che ha in testa è un parrucchino. Ovviamente parliamo di Tommy Robredo, lo spagnolo che migliora invecchiando e che ha regolato sempre problemi il tedesco Berrer, battuto addirittura senza mai cedere il servizio. Dell’attitudine di Robredo sappiamo tutto: Tommy migliora anno dopo anno, e dopo una vita passata in catena di montaggio si concede anche qualche vezzo.

“Hai voglia a pedalare caro Berrer, per fare questo colpo non mi servono neanche gli occhiali (da sole)”

Victor Estrella Burgos, unico rappresentante nel board mondiale del tennis operaio per conto della Repubblica Dominicana, ha perso contro Jack Sock, lo yankee per eccellenza. Ad un certo punto, Victor ha pensato bene di invertire le sorti della partita scagliando un’incudine direttamente nei piedi dell’americano. Sock però se l’è cavata alla grande, dimostrando che il college americano privato è utile nel problem solving.

“Io non avevo i soldi per il College, e mi allenavo giocando a bocce con le noci di cocco. Tieni, prendine una”. “Presa”. 

Ma l’affronto, lo smacco più grande della giornata, lo ha compiuto Donald Young, una delle tante promesse mancate del tennis USA. Young, che ha ampiamente disatteso queste aspettative, continua a girare il circuito per sbarcare il lunario, cogliendo qualche vittoria qua e là. E quando Gilles Simon, testa di serie numero 11 del torneo e impiegato di concetto fra gli operai del tennis, si è portato avanti di due set e di un break, tutti noi eravamo tranquilli a studiare il prossimo avversario del francese.  Anche perché Young non ha mai recuperato due set di svantaggio in un torneo del Grande Slam (così come Gilles non aveva mai perso quando si è trovato avanti di due set). Poteva quindi riuscirci contro Simon? Sì che poteva. E l’ha fatto, a casa sua, cogliendo la vittoria più importante della giornata e una delle più grandi della sua carriera. Lui, a fine gara, era visibilmente conscio della sua impresa, che deve avergli dato un bel po’ di fiducia se è vero che, in conferenza stampa, ha dichiarato:

“Sento che se faccio le cose bene posso andare avanti nel torneo. Sono molto concentrato sul secondo turno”

Simon, invece, si è cosparso il capo di cenere e ha detto:

“Volevo sbattere la testa contro i teloni, tanto ero nervoso”

A nulla servirà la sicura sconfitta di Young al prossimo turno. I Tennisti Operai hanno perso uno degli impiegati più rappresentativi, uno uscito fuori dalla catena di montaggio e che si è arrampicato sulla scala sociale. Poi arrivano questi fighetti USA con orecchino e cappellino Boast a ricordarci che bisogna essere umili. Sempre.

Un altro portabandiera del tennis operaio, Santiago Giraldo, ha perso contro un altro yankee, tale Krajicek. Mah. E meno male che Tomaz Bellucci, mancino brasiliano dal top spin facile, ha ricordato che gli inglesi, in America, non sono i benvenuti dopo la rivolta del Tea Party: Ward ha perso tre set a zero ed è tornato tranquillamente dalla regina, forse addirittura in tempo per il tè. Uno dei due omonimi del circuito, Joao Souza, si è immolato di fronte a Novak Djokovic, numero uno del mondo che ha gentilmente concesso un game per ogni set, non sentendo il bisogno di umiliare tennisti molto al di sotto della scala sociale. Federico Delbonis ha perso contro Ivo Karlovic, uno che gioca meglio oggi rispetto a quando aveva l’età per giocare a tennis.

La pattuglia operaia registra una brutta battuta d’arresto anche nella guerra sempre in corso contro i #TennisHipster. Il georgiano Gabashvili, con un nome, Teymuraz, decisamente più bello del suo tennis, ha sbattuto fuori un onesto lottatore come Pablo Andújar, operaio nell’indole, uno che ha studiato e sa toccare la palla come si deve ma che ama lottare contro i più forti (o i più strambi, come Teymuraz, appunto). E meno male che Bautista Agut, impiegato di concetto sul campo, ha battuto Herbert, francese bohémien che se si trasferisse a Roma cercherebbe casa al Pigneto, vicino Necci. Lo spagnolo, uno dei pochi a non rispettare il sacro comandamento del topspin, ha disposto del suo avversario in virtù, almeno, del doppio-cognome.

Stan Wawrinka ha dimostrato che il figlio dell’ingegnere non ha le stesse opportunità del figlio dell’operaio. Ecco, quindi, che Ramos Viñolas, con la sola arma del top spin non ha potuto nulla contro il cannoniere svizzero, che praticamente ha tirato bombe di diritto e di rovescio per tutta la durata del match. Stoico Ramos Viñolas a cercare di resistere, ma il titolo di studio a volte fa la differenza.

Jerzy Janowicz, il polacco che ogni tanto si crede un fenomeno, è stato ridimensionato ancora una volta da un altro esponente del tennisoperaio, Pablo Carreño Busta. Non è questione di occhiali da sole, di capelli stropicciati, e di tirare più forte dell’avversario: l’attitudine e l’umiltà vincono sempre contro questi fighetti ripuliti dell’Est.

I migliori esponenti del Fronte di Sinistra e dei lavoratori, coalizione della sinistra argentina d’ispirazione trozkista, al secolo Pablo Cuevas e Diego Schwartzman, hanno superato il turno battendo rispettivamente Dudi Sela (seriously: Dudi?) ed Elias Ymer, speranza del tennis svedese che… aspetta e spera. Due buone vittorie. Ottima invece quella di García López, che ha battuto al quinto set Janko Tipsarevic, altro yuppies serbo che ogni tanto va rimesso al proprio posto. In casa nostra, il landiniano Paolo Lorenzi è fuori dal torneo. Si è trattato di uno scontro generazionale, con il vecchio Lorenzi battuto dal giovane Vesely, uno che in Italia sarebbe un renziano. Presunto esponente della sinistra moderna, Vesely ha disposto di Lorenzi a piacimento. Per Paolo, invece, ennesima gita con rimborso a New York, ma sempre con tessera di partito in tasca, anche se da agit-prop della Festa Democratica sta per passare dietro i fornelli, ad arrostire salsicce con il cappello di carta in testa.

Ah e poi ci sarebbe lui, Leonardo Mayer. Roger Federer lo ha ricoperto di complimenti alla vigilia del torneo.

“Gioca molto bene, mi piace allenarmi con lui perché colpisce forte sia di diritto sia di rovescio”

Sì, certo. E poi il povero Mayer ha rimediato cinque game in tre set, con i grandi giornali indecisi se titolare con “Fed-express” del giorni pari o con il “Federer sul velluto” dei giorni dispari. Ma sappiamo perché è andata così. Mayer, l’ultima volta che ha giocato contro Federer, ci ha fatto la stessa tenerezza di un Teddy Bear. Ha sciupato cinque matchpoint in quella che sarebbe stata la vittoria della sua vita. E poi ha finito per piangere, con Federer a rete che gli dava le pacche sulla spalla e gli ha ricordato che Babbo Natale non esiste. Ieri Mayer ha preferito farsi da parte senza neanche lottare, non sia mai arrivasse un setpoint. Ai dirigenti del partito operaio questo atteggiamento non è piaciuto. È ancora presto per convocare i probiviri, però quando si ha di fronte l’amministratore delegato di una delle più grandi multinazionali del mondo bisogna dare di più: è pur sempre una lotta di classe (operaia).

TennisOperaio US Open 2015


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