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Tennishipster: ritorno nel Vecchio Continente

Gli Slam, dopo tutto, non sono poi così male, si dice un assonnatissimo tennishipster il giorno della finale del Master 1000 di Shanghai. Ha fatto uno strappo alla regola, si è alzato molto prima del solito e prima di prepararsi ad uscire (c’è un mercatino delle pulci poco lontano da casa, dove spera di trovare qualche vinile a prezzo stracciato) ha buttato un occhio alla finale. Ha vinto quello là in finale contro quell’altro, un risultato tanto spietato quanto scontato e che il nostro annota mentalmente mentre si versa un bicchiere di succo al melograno. Per fortuna, si dice scendendo in strada, la prossima settimana tocca al tennis che conta, quello immune alle luci esagerate, al pubblico delirante, ai match che si giocano sempre tra i soliti noti. Ammettiamolo: il tennishipster è irresestibilmente attratto dagli Slam, dalla loro aura così sacra e inavvicinabile. E se effettivamente non può prendere parte alla seconda settimana – ché quella è roba off-limits per ogni tennista di seconda o terza fascia che si rispetti -, la prima settimana è godimento puro tra spalti quasi vuoti e solo il rumore della pallina a fare da metronomo, interrotto solo da qualche sparuto applauso di qualche tennishipster in trasferta.

Ma i Master 1000, no. Quella è roba da mainstream della peggior specie. Le peggiori storture dell’elitarismo hanno preso forma con i Master 1000, con i loro cut-off così severi, con gli orrendi e antidemocratici bye concessi alle viziatissime prime otto teste di serie. Il tennishipster non riuscirà mai a capacitarsi che nel terzo millennio siano ancora concessi certi favoritismi così classisti. Del resto, parliamo di uno sport che non ha dato il riconoscimento che si meritava un diamante purissimo come Xavier Malisse, bollandolo invece come un pigro che ha sprecato il suo talento (come se si misurasse con le vittorie, il valore vero di un giocatore, e non con la sua capacità di produrre arte effimera!). Nemmeno gli ATP 500 suscitano la simpatia dell’esigente appassionato di tennis alternativo: travestiti da tornei minori, spesso presentano montepremi e tabelloni che assomigliano terribilmente a quelli degli ingiusti Master 1000. E molto spesso vengono visitati da qualche ricco tennista che certo non può rinunciare al lauto compenso promesso da qualche parvenu degli Emirati. Ragion per cui, restano gli ATP 250: i primissimi ne devono giocare appena due all’anno e naturalmente scelgono i più ricchi – che loro chiamano più prestigiosi, per mascherare la loro incessante brama di successo e di denaro – e quindi può capitare che ci siano settimane dell’anno, rarissime invero, in cui il tennishipster può godersi qualche giorno libero dalla tirannia di quella gramigna che risponde al nome di tennista top-10 (o top-20: è la stessa cosa, in fin dei conti).

Questa settimana è una di quelle settimane. I primi della classifica stanno già pensando all’ultimo torneo, quel torneo dal nome pomposo che per il tennishipster rappresenta le nemesi, la rappresentazione più spudorata e umiliante del tennis dei prepotenti: le ATP World Tour Finals. Un torneo riservato a otto (otto!) tennisti, naturalmente i più forti. E quel contentino dell’ATP Challenger Finals certo non basta a lenire anni di ferite inferte da questa casta di privilegiati all’orgoglio del tennishipster. Per fortuna, a ridosso del finale della stagione, mentre i tennisti più fortunati vanno ad abbronzarsi a Dubai e si preparano per il rush finale da cui è esclusa ogni sacca di resistenza hipster, ci sono tornei come quelli di Stoccolma e Mosca che salvano l’onore del circuito. Purtroppo Vienna, con il suo fascino così mitteleuropeo, ha deciso di piegarsi alle logiche economiche e ha accettato di buon grado il cosiddetto “upgrade”, la certificazione da salotto buono dell’ATP. Ma il tennishipster, ad ogni modo, ha di che consolarsi. Nel freddo del nord Europa, infatti, si trova meravigliosamente a suo agio. Lo swing asiatico è per lui un nonsense che fatica a capire, mentre le tradizioni del Vecchio Continente sono un porto sicuro in cui rifugiarsi dopo settimane di tabelloni presi in ostaggio dai primi della classe.

A Stoccolma, tanto per dire, c’è Jarkko Nieminen, un tennista che ha sempre faticato per stare con l’élite del tennis e che sempre ne è stato respinto. Il suo tennis così rischioso e insensato lo affascina: quando trova il suo nome nel tabellone dello Stockholm Open, si ricorda con una stretta al cuore che quello sarà il suo ultimo torneo. Ed è con un’altra stretta al cuore che il tennishipster ricorda il match di primo turno contro l’ex nemico Lleyton Hewitt, tennista simbolo di tutto ciò che il nostro fanatico odia ma che ha finito per conquistare anche il suo cuore dopo anni di stoica sofferenza nel circuito. Ma è tutto il torneo, a dire il vero, a regalare delle inattese sorprese al tennishipster: la presenza di Elias Ymer, non fa sbalordire nessuno, tantomeno il nostro esperto, che ormai si è consumato gli occhi nel rivedere i video su YouTube di questo campioncino svedese; ma nomi come quello di Alexander Marterer, passato dalle qualificazioni e capace di eliminare la prima testa di serie, Nicolás Almagro, lo fa quasi sobbalzare. Certo che se lo ricorda questo ragazzino sfrontato tedesco! Come non potrebbe, dopo quella semifinale meravigliosa a Wimbledon 2013 junior persa per un soffio contro Hyeon Chung?

Ma è a Mosca, alla Kremlin Cup, che il tennishipster rischia di essere travolto dalle emozioni in un’estasi stendhaliana. Pare che gli organizzatori abbiano creato un tabellone su misura per lui: c’è Radu Albot, il prediletto Andrey Rublëv – da pronunciarsi naturalmente Rubliov, come dovrebbe sapere ogni appassionato di pittura di icone o, meglio ancora, qualunque cinefilo (esiste forse qualcuno che non conosce Andreij Tarkovskij?, si chiede con un brivido l’ingenuo tennishipster) -, il serial killer Teymuraz Gabashvili, lo sconosciuto (ebbene sì) Cem Ilkel, l’eterna promessa Ricardas Berankis e altre piccole perle da intenditori come Aslan Karatsev. Il tennishipster, smarrito in cotanta ricercatezza, deve studiare accuratamente l’order of play del torneo moscovita per cercare di non perdersi nessuno dei suoi eroi. Nel frattempo, com’è solito fare, annota con rigore i risultati delle qualificazioni, autentiche miniere per un cercatore d’oro come il nostro fanatico. Le pepite che regalano tornei come la Kremlin Cup – il tennishipster sospira pensando a quelle alte torri, o alla disneyana basilica di San Basilio che si ripromette di visitare da anni – sono infatti delle gemme particolarmente preziose, che vanno tutelate con una gelosia che solo un numismatico del tennis può comprendere. Più va avanti il torneo, infatti, più si imporranno i nomi alla portata di tutti: tennisti caduti in disgrazia illusi dalla favola del “tennis che conta”, wannabe che aspettano solo l’occasione giusta per mettersi in mostra e farsi conoscere da tutti (è l’inevitabile destino di tutti i prediletti del tennishipster) o, infine, qualche sparuto protagonista che azzecca la cosiddetta “settimana della vita”. Così come questi ultimi, la vita da spettatore del tennishipster è fatta di queste infinite attese. Chissà che questa settimana non sia quella buona.

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