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NormoNole

Da quasi un anno ormai, più o meno validi dottori si affollano al capezzale dell’illustre convalescente Novak Djokovic. Un tempo dominatore del mondo, per anni principale indiziato dell’omicidio del tennis, il quasi trentenne fuoriclasse serbo dalla vittoria del Roland Garros pare essersi infilato in una strana crisi, che molti hanno frettolosamente collegato al raggiungimento di quel grande risultato. Completato il “Nole Slam” (che è passato quasi inosservato ma che è una cosa che non riusciva dai tempi di Laver), Djokovic avrebbe avuto una sorta di sindrome da appagamento, che unita a supposti problemi personali, più materia da gossip che argomento serio, lo avrebbe più o meno inconsciamente portato a mollare qualcosa, quel qualcosa che trasforma l’imbattibile fuoriclasse in normale campione.

Così andrebbero spiegati i rovesci contro Querrey a Wimbledon e Istomin a Melbourne, la perdita della prima posizione del ranking mondiale, l’aumento generalizzato del numero di sconfitte con relativa diminuzione del numero dei tornei vinti. Forse, più in generale ancora, è così che andrebbe spiegata la sostanziale differenza con Djokovic del 2015. Se il Nole di allora era inscalfibile e fin dai primi game non sembrava possibile che la partita prendesse una piega diversa, adesso si ha sempre la sensazione che la partita di Nole potrebbe in qualsiasi momento complicarsi. Ma davvero stanno così le cose? Un semplice calo psicologico ha prodotto tutti questi, supposti, sconquassi? Del resto, si dice, non è già capitato a Borg e a Wilander?

Perché Nole non perdeva (quasi) mai
Per fare partita, e cioè fare in modo che il risultato finale sia in discussione durante la contesa, in questo sport bisogna essere in due. Djokovic si è trovato per molti anni a giocare da solo, difficile perdere così. Gli avversari infatti, spaventati dai continui record del serbo, perdevano prima di scendere in campo. E così i primi turni dei tornei erano semplici partite, esibizioni, perché Djokovic aveva ammazzato il tennis e figurarsi se c’era qualcuno fra i comprimari che aveva voglia di arrestarlo. Poi, nelle fasi finali dei tornei, lui era pronto a dare il meglio di sé, fresco e riposato per affrontare i Murray, i Federer e i Nadal nel pieno delle sue forze. Il tennis percentuale portato ai livelli della perfezione, la capacità di tenere un ritmo di gioco insostenibile per gli avversari, la mancanza di punti deboli da fondo campo e accortezze tattiche migliorate e allenate nel corso degli anni hanno reso Djokovic ingiocabile per la quasi totalità dei giocatori. Se non dava una mano lui, batterlo era impossibile.

Il cambiamento
Le cose sono cambiate, in realtà, a partire dalla fine del 2015, l’anno d’oro in cui perse appena sei partite e vinse undici titoli. Fino alla finale di Parigi contro Wawrinka, Djokovic sembrava dominare in lungo e in largo. Vittoria a Melbourne, Indian Wells, Miami, Montecarlo, Roma. E poi il modo. Il 6-0 inflitto in semifinale a Wawrinka e in finale a Murray a Melbourne; un 6-2 al terzo contro Federer che solo un miracolo aveva tenuto in partita a Indian Wells, ancora 6-0 a Murray a Miami, appena 6 game concessi nella lenta terra di Montecarlo a Nadal, Roma dominata con indolenza. Davvero un cannibale. A Parigi, prima di perdere contro Wawrinka, trova Nadal nei quarti e Murray in semifinale che gli dà qualche problema. A Wimbledon, Djokovic sembra in qualche modo aver subito la botta, e rischia grossissimo contro Kevin Anderson. Una cattiva prestazione di Federer in finale gli consente di vincere il suo terzo titolo ma, impercettibilmente, le cose cominciano a cambiare. Djokovic continua a vincere ma convince molto meno. A Cincinnati perde con Federer dopo aver patito tutto il torneo contro Goffin, Dolgopolov e qualcosa persino con Paire; a New York Federer lo aiuta non poco, dopo che un tabellone amico lo aveva condotto in finale senza troppa fatica. Poi tra Pechino, Shanghai e Parigi, Djoko torna inscalfibile, passeggiando sui resti di rivali che sembrano cotti più di lui. Vince le Finals, vince Melbourne e ancora a Indian Wells e Miami. Ma i campanelli d’allarme si fanno sentire.

A Melbourne con Simon porta a casa una partita con 100 errori gratuiti; a Indian Wells perde un set con Fratangelo, vince con Tsonga solo con due tie break, neanche contro Nadal domina, anzi, rischia per la prima volta di perderci un set, dopo secoli. In finale c’è Raonic, che come sempre si fa male. A Miami scricchiola meno ma approfitta di un Thiem non ancora pronto e di uno dei tanti disastrosi Nishikori di questi ultimi due anni. Perde a Montecarlo, ma vince Madrid e perde Roma, tutto contro Murray. Ma al di là dei risultati le partite non sono più dominate. A Roma prende addirittura un 6-0 da Bellucci; contro Nishikori vince solo al tie break del terzo. C’è ancora il Nole che vince i tornei, quello che non c’è più è il Nole che domina. E in effetti, se si scorrono i commenti dell’epoca, c’è già pronta la spiegazione: sindrome da Roland Garros, appena lo vincerà la sua mente tornerà sgombra.

Sappiamo tutti com’è finita, e non è certo inverosimile credere che se Nole avesse perso ancora a Parigi le cose non sarebbero cambiate. Solo che la spiegazione psicologica sarebbe stata adattata alle mutate circostanze: Nole non riusciva più a dominare perché frustrato nei suoi tentativi di raggiungere il trofeo di Bois du Boulogne.

La consapevolezza di Murray
Vinto il Roland Garros, le motivazioni di Djokovic si sono affievolite e per osmosi si sono irrobustite quelle del suo rivale più forte, Andy Murray. Djokovic calava e lo scozzese, ormai liberatosi dagli intoppi fisici che lo hanno tenuto fuori dal giro dei più forti per più di un anno, ha cominciato a giocare sempre meglio. E il fatto che Murray sia un tiranno molto differente dai tre che l’hanno preceduto non ha cambiato l’aritmetica: Djokovic, nella seconda metà del 2016, ha cominciato a perdere contro avversari che qualche mese prima dominava con sconfortante agio; Murray perdeva poco, e sempre per colpa sua. Alla resa dei conti, la finale delle ATP World Tour Finals, è finita con un punteggio netto, replica esatta del rovesciamento dei valori. E così il circuito ha trovato un nuovo numero 1, un dominatore che non disdegna di lasciare spiragli agli altri e che non ha ancora, e non avrà mai, la costanza per vincere sempre, anche quando le cose vanno storte. Djokovic ha dovuto lasciare il passo alla fame di chi è dovuto stare sempre dietro, all’ambizione di chi si è dovuto accontentare e alla volontà di chi ha voluto sovvertire, stavolta davvero, le gerarchie.

Dovrete sforzarvi per ricordare l'ultima sconfitta di Djokovic a Indian Wells: in semifinale con del Potro, quattro anni fa.
Dovrete sforzarvi per ricordare l’ultima sconfitta di Djokovic a Indian Wells: in semifinale con del Potro, quattro anni fa.

E poi c’è Kyrgios
Ovviamente tutto ciò non basta per definire “finito” Djokovic: parliamo pur sempre del numero 2 del mondo e di un tennista che da fondo campo resta tra i migliori del mondo. Quello che sta mancando è quel qualcosa in più che lo faceva spiccare su tutta la concorrenza: negli ottavi di Indian Wells, contro Nick Kyrgios, si sono visti molti dei motivi per cui Djokovic non è più il forte tennista del mondo, e alcuni dei quali per cui è stato quasi sempre in cima alla classifica mondiale per cinque anni. Lo straordinario rendimento al servizio dell’australiano, uno di quei pochissimi tennisti davvero convinti di essere il più forte, ha giocato un ruolo decisivo nel match. Kyrgios ha trovato molti dei suoi ace – 12 in due set – in momenti cruciali, sul 30-30 o a chiudere il game. Quello che ha chiuso il primo parziale, in particolare, ha fatto imbestialire Djokovic, che di certo non può rimproverarsi granché. A un tennista come lui, può ben capitare di perdere il servizio, visto che si parla di un ottimo colpo, ma non certo il migliore del repertorio. Tanto, di solito, ci pensava la risposta a mettere a posto le cose. Ma contro Kyrgios non ha funzionato nulla in ribattuta, il colpo su cui il serbo ha costruito tutto il suo successo: ad un certo punto, verso la fine del primo set, Kyrgios ha messo solo una prima, ma tutto quello che è riuscito a fare Djokovic è stato arrivare a trenta. Quei colpi speciali che arrivano dal nulla, quelli che fanno la differenza tra un Djokovic e un Bautista-Agut, anche ieri sono rimasti sopra la sua Head, mentre dalla Yonex di Kyrgios, di cui spesso si è parlato per come veniva malmenata dall’australiano, uscivano colpi impronosticabili, che hanno spesso frustrato la psiche ormai fragile di Djokovic.

Cali di motivazioni, giovani avversari che crescono e finalmente vincono, vecchi avversari che ritornano dopo mesi di assenza e vincono pure questi. Tutti segnali che indicano una strada, quella del declino. E Djokovic sta muovendo i primi passi su questo sentiero, che per lui è nuovo. Se allunga lo sguardo riesce a vedere Nadal, davanti a lui di parecchio. Da questa strada non si torna indietro, perché di Federer in giro ce n’è uno solo e lui gioca a tennis in un’altra maniera. E allora, se veramente qualcosa è cambiato nella testa di Djokovic, c’è da accettare con serenità questa nuova dimensione. Non saranno le racchette sfasciate, i cambi di coach o gli sfoghi random a farlo tornare il dominatore. Quei tempi sono finiti, e il tennis è tornato a essere uno sport democratico nelle vittorie. Non era quello che volevamo, in fondo?

Novak Djokovic


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