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Quel fascino discreto del razzismo

Ilie Nastase è sempre stato uno con una gran voglia di scherzare. È inutile fare il riassunto di tutti i motivi per cui lo chiamano Nasty, basta fare una veloce ricerca su Google e si scoprirà un mondo fatto di battute salaci, come quando per esempio chiamava Arthur Ashe “Negroni”. Siccome il tennis non è più lo sport delle buone maniere, Ilie Nastase è sempre stato definito bonariamente “un personaggio” dai sagaci futuristi che si aggiravano per le redazioni dei giornali e oggi battono a caso i tasti delle loro tastiere. Uno avanti, che non si lascia irretire da ideologie stantìe e, diciamocelo pure, francamente noiose per noi che sappiamo come divertirci.

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A poco vale che quelli del New Yorker già una ventina d’anni fa in un pezzo dedicato proprio a Nastase, mettevano in dubbio che essere “una personalità” potesse essere sinonimo di “pezzo di merda”. Il termine “personality”, una volta affibbiato, è un ottimo passepartout per mostrare il peggio di sé, che inevitabilmente ricade su qualcuno che è nero, donna, omosessuale. Visto che si è decretato che ormai la discriminazione è un relitto del passato, materia che fa sussultare solo parrucconi buonisti, vecchi dentro e fuori, allora dagli al “cioccolatino”, alla “palpatina” innocente, al “meglio frocio che laziale”. È il meccanismo del “non sono razzista ma”, con quella congiunzione avversativa che significa solo “invece sì”, un meccanismo che fa francamente già schifo di suo e che non è troppo diverso da quello che porta a ridurre a “rissa finita male” un omicidio a sfondo razzista commesso nei confronti di un immigrato, e che porta appunto un intero studio televisivo – vittima compresa – a ridere di uno “scherzo televisivo” che prevede nient’altro che delle molestie sessuali.

La complicità di chi scrive è essenziale perché questi orribili atteggiamenti invece di allontanarti da un consesso appena appena decoroso, se non vogliamo proprio scomodare l’aggettivo “civile”, trovino cittadinanza e, anzi, addirittura plauso. Che si tratti di qualcosa di innocente come uno sciocco programma su Canale 5 che non fa male a nessuno o di una vigliacca aggressione razzista che costa la vita ad un uomo di 36 anni, il frame con cui i giornali trattano il tema non cambia: parola o manganello dal sen fuggito, mica razzismo o sessismo. Niente più che uno scherzo, un modo come un altro per farsi due risate mentre la donna viene ridotta ad un oggetto sessuale alla quale dare una palpatina. Del resto le donne in studio non ridono, forse? Loro sì che sono emancipate, che sanno che il loro dovere è, oggi come sempre, fare piacere al maschio. Ché poi una toccatina, su, qual è il problema? In fondo le donne vogliono solo quello, un po’ puttane lo sono no?

Così se Ilie Nastase si chiede se il figlio di Serena Williams, sarà “cioccolato con latte?”, – ma davvero c’è qualcuno che ride di queste miserie? – non è certo un razzista ma un arzillo 70enne col vizio di non tenere mai a freno la lingua. E quando il giorno dopo dà delle “puttane del cazzo” ad Anne Keothavong e Johanna Konta o quando chiede alla capitana di Fed Cup della squadra avversaria il numero della sua stanza d’hotel non sta certo compiendo un intollerabile offesa non solo alle donne ma al genere umano, costretto ad osservare smarrito come il mondo maschilista derubrichi la molestia sessuale a niente più che “uno scherzo” e l’insulto a “una battuta”. Cosa volete leggere se non:

Nastase ha sicuramente sbagliato: fedele al suo personaggio, ha esagerato nell’esuberanza linguistica, ma forse il clamore attorno alla faccenda è un po’ esagerato. La frase di venerdì era chiaramente una battuta, peraltro pronunciata pensando di non essere captato da orecchie e microfoni (grave ingenuità), mentre l’insulto del sabato è qualcosa di tristemente comune, al giorno d’oggi. Certo, uno nella sua posizione dovrebbe essere più cauto…

“Più cauto”: non farla così sfacciata, perché in fondo lo sappiamo che si può fare, ma su, lo sai che in giro c’è gente che non ce l’ha con te perché sai godertela, mica sei triste come loro.

In queste poche righe è sintetizzato in gran parte il giustificazionismo che spesso accompagna questo tipo di uscite: c’è il topos dello scherzo che stempera la gravità dell’uscita. “Era chiaramente una battuta”: loro lo sanno, sono abituati a scherzare così, mica sono in grado di interrogarsi su cosa significhi una battuta. C’è il topos dell’ingenuità (Nastase ha detto quello che ha detto senza sapere che c’erano dei microfoni a registrarlo, per cui la gravità di quello che ha detto è minore). E infine il colpo di mettere sullo stesso piano l’uscita razzista di Nastase e il sacrosanto “clamore” che ne scaturisce, funzionale allo spostamento di focus: ma che state a parlare di razzista e sessista, qui il problema è che non sapete stare allo scherzo di Ilie Nastase, uno che è stato numero 1 del mondo mica come voi poveracci (e viene da sperare che il signore iddio ci conservi i 4 Fab Four, che tennisticamente valgono 8 Nastase e che con questo criterio potrebbero passare il tempo a sterminare infanti).

Non c’è niente di strano in quello che sta succedendo su un episodio tutto sommato marginale, soprattutto nel mondo del tennis, che ancora ricorda con struggente nostalgia quando i due mammasantissima del giornalismo tennistico aprivano i loro collegamenti con “bingo bongo quanto è bello stare al congo” e che oggi elenca ammirato tutte le qualità delle nuove star, quelle che si danno di gomito quando Panatta chiede di chi era figlio il figlio di Amelie Mauresmo e gli si risponde con uno schifoso “al massimo di cosa!”. Un mondo che ricalca perfettamente il mondo lì fuori, che risolve pensando che Nastase non aver detto niente di male e tutto quello che deve fare è poi mandare un mazzo di rose al team inglese di Fed Cup, come un incauto marito che debba farsi perdonare un’uscita infelice sul nuovo taglio di capelli della moglie.

Un mondo che, come lì fuori, è sempre stato un po’ fascista.

 

Correzione del 26 aprile: una precedente versione riportava che Panatta avesse chiesto di cosa era figlio il figlio di Mauresmo. In realtà, Panatta aveva chiesto di chi era figlio e gli era stato risposto “al massimo di cosa!”.

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