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Chi ha ucciso Eugenie Bouchard?

Quando raggiunse la finale a Wimbledon tre anni fa, battendo in straight sets prima Angelique Kerber e poi Simona Halep, Eugenie Bouchard era già imbattibile. Aveva compiuto da poco vent’anni, aveva già raggiunto le semifinali negli altri due Slam giocati in quella stagione, e in poco tempo era diventata la tennista più cercata, intervistata e fotografata del circuito. Con Serena Williams che sembrava entrata definitivamente nella fase calante della sua carriera, una Maria Sharapova davvero competitiva solo sulla terra battuta e una Victoria Azarenka che aveva abbandonato i buoni propositi degli anni precedenti, il volto giovane di questa ragazza canadese arrivava con ottimo tempismo per l’ennesimo rilancio della WTA.

Tre anni dopo, la canadese è diventata una presenza spettrale nel circuito che si porta dietro la gloria di quei pochi mesi e l’ansia del successo a tutti i costi che ne è derivata. Ieri, dopo aver battuto Alizé Cornet al primo turno del Premier Mandatory di Madrid ha detto di aver meditato molto su quello che è successo negli ultimi mesi: «Ho fatto un esame di coscienza. E ho scoperto che c’era molta oscurità. È così che va il tennis, è dura. Come la vita. Ho cercato di capire che costa stava succedendo dal punto di vista mentale. Anche se perdevo tante partite, sentivo comunque la pressione di vincere le partite». L’oscurità che l’ha imprigionata e infine uccisa è un’entità misteriosa, una variabile imprevedibile che è uscita poco a poco senza che nessuno, Bouchard compresa, se ne accorgesse. Quella che è vediamo oggi è un’altra Bouchard, una Bouchard specularmente opposta a quella del 2014. È una Bouchard convinta di essere ancora la Genie pronta a vincere tutto perché convinta di essere la più forte, ma che in realtà ha smesso di essere imbattibile, ammesso che lo sia mai stata, da un bel pezzo.

La prima finale Slam giocata da Eugenie Bouchard finì male, 6-3 6-0 contro Petra Kvitova, ma nessuno dette troppa importanza al risultato, anche perché la sua avversaria aveva giocato la partita perfetta al termine di un torneo perfetto. Tra le varie domande che le rivolsero durante la conferenza stampa, Eugenie si trovò anche a rispondere su come si aspettava di essere accolta a Montréal, il torneo di casa, prossimo impegno del suo programma dopo una prima parte di stagione densa di eventi e vittorie: «Non lo so come sarà. Sono solo felice di avere un po’ di pausa, di stare a casa con la mia famiglia. Starò molto tempo sul divano, questo è il mio obiettivo. Montréal c’è ogni due anni, e l’ultima volta che ci sono andata avevo appena vinto il titolo junior [di Wimbledon]. Sì, dovrebbe essere bello. Non gioco spesso davanti al pubblico di casa, per cui spero che la gente verrà a vedermi».

E di gente, a vedere Eugenie Bouchard all’esordio nella Rogers Cup, nemmeno un mese dopo, ne venne eccome. Il centrale era ovviamente pieno, nonostante una giornata da dimenticare per via di un black out che aveva lasciato Montréal senza corrente per buona parte della giornata, quando la canadese scese in campo per giocare la sua prima partita dopo la finale di Wimbledon. «Doveva essere una giornata storica, e lo sarà, ma per i motivi sbagliati», disse sconsolato il direttore della Rogers Cup Eugene Lapierre a fine giornata. A completare il disastro canadese fu proprio la beniamina di casa, battuta con un punteggio clamoroso, 6-0 2-6 6-0, da una tennista quasi sconosciuta con lo stesso nome del torneo, Shelby Rogers. Dopo i primi cinque game, nei quali aveva subìto tre break senza quasi lottare, Bouchard aveva provato a chiamare il suo fidato coach, Nick Saviano, e tutto quello che era riuscita a dirgli, con gli occhi fissi nel vuoto, fu: «Voglio lasciare il campo».

I wanna leave the court.

Dietro a quegli occhi spenti si nascondeva il futuro di Bouchard, qualcosa che nessuno si aspettava dopo sei mesi fatti di tante vittorie. Quello che sorprendeva di quella ventenne, più che il suo gioco, era una solidità mentale rara, una capacità di concentrazione che di solito i suoi coetanei, per fortuna, non hanno. Ma si trattava solo di un’illusione, una bugia che Eugenie si è ripetuta talmente tante volte fino a crederci davvero. Una bugia che venne a galla per la prima volta a Montréal, in un’atmosfera surreale, senza i microfoni in campo, con l’umidità che costrinse l’arbitro a interrompere la partita per un paio di minuti, il pubblico sconcertato. Fu questo il contesto in cui lo spettro della sconfitta, la paura di essere terrena e fallace come tutte le altre, il timore di non essere fatta per dominare il tennis, cominciarono per la prima volta ad annidarsi nella psiche della canadese, che dopo aver reagito nel secondo set, si fece annichilire nel terzo con un altro 6-0.

I giornali diedero molto rilievo alla fragorosa sconfitta di Bouchard, e come avrebbero potuto fare altrimenti, dopo tutte le belle parole spese per lei dalla semifinale di Melbourne in poi? Molti minimizzarono la portata del risultato, sottolineando l’età della giovane Eugenie, ancora incapace di gestire una pressione tale («Ma è una cosa che dovrò imparare velocemente», disse dopo la partita con Rogers, e tutti si affrettarono a lodarne le doti da campionessa in fieri). Nessuno se la sentiva davvero di pronosticare quello che sarebbe accaduto nei mesi a venire, anche perché il resto del 2014, tutto sommato, non andò così male, anche se non fu minimamente paragonabile a quanto visto nei primi sei mesi. Bouchard perse agli ottavi degli US Open e arrivò in finale nel Premier 5 di Wuhan, dove fu ancora Petra Kvitova a sconfiggerla. A fine anno arrivò ai WTA Championishps con poche energie, vincendo undici game in sei set. Pazienza, ci si disse, chissà quanti altri Masters giocherà in carriera.

Con il senno di poi, la partita con Shelby Rogers a Montréal fu la svolta decisiva della carriera di Eugenie Bouchard, ma allora era davvero difficile accorgersene. Ed è altrettanto difficile spiegare con esattezza che cosa è successo da quella partita in poi, anche perché Bouchard ha continuato imperterrita a interpretare senza sbavature, come se nulla stesse accadendo, il suo ruolo da ragazza immagine, quello che a giugno 2014, prima ancora della finale a Wimbledon, le aveva fatto firmare un ricco contratto con Coca-Cola, e che nonostante gli scarsi risultati sul campo l’ha fatta arrivare al decimo posto tra le atlete più pagate nel 2016.

Le sedici vittorie ottenute nei primi tre Slam del 2014 sono le stesse che ha ottenuto nei dieci Slam successivi, con un solo quarto di finale, agli Australian Open 2015, persi senza lottare contro Maria Sharapova. In mezzo è successo di tutto: si è separata dal suo storico coach, Nick Saviano, a fine 2014, poi ha cominciato a lavorare con l’ex coach di Sharapova, Thomas Högstedt, poi ha riassunto Saviano e alla fine si è rimessa a lavorare con Hogstedt, al quale ha chiesto scusa andandolo a prendere all’aeroporto di Tampa, in Florida. Ci sono state le voci su dei disordini alimentari; c’è stata – ed è ancora in corso – la causa contro l’USTA per una caduta negli spogliatoi prima del suo match agli ottavi degli US Open 2015 contro Roberta Vinci, quando sembrava stesse tornando finalmente ai suoi livelli; c’è stata l’impressionante numero di sconfitte nel 2015 tra Indian Wells e gli US Open, con 3 vittorie in 17 match; ci sono stati gli Internazionali d’Italia dello scorso anno, quando vinse al secondo turno una bellissima maratona, 7-5 al terzo, contro la numero 2 del mondo, Angelique Kerber, per poi perdere 6-1 6-0 il giorno dopo contro Barbora Strycova; e poi c’è stato l’ITF da 80.000 dollari a Indiana Harbour Beach, al quale Bouchard si è iscritta qualche settimana fa, ottenendo tutti i titoli dei giornali, prima per la scelta così poco posh e poi per la sconfitta con Victoria Duval, numero 896 del mondo.

Come Laura Palmer, Eugenie ha nascosto un lato oscuro mentre continuava a sorridere agli obiettivi, a firmare autografi, ad evitare le domande scivolose. In tempi di autorità traballanti, la sua leadership avrebbe fatto bene al tennis almeno quanto il ritorno di Maria Sharapova e Victoria Azarenka, pur giocando un tennis con tante carenze. Ma da Montréal in poi, la canadese si è fatta vedere sempre a meno agio nei panni della nuova reginetta. Ancora prima di mettere la fascia e di indossare il diadema, la Laura Palmer del tennis ha capito che quella vita non faceva per lei. Il bisogno di vincere, la necessità di essere sempre la più forte, anche quando si perde perché tanto c’è un torneo la settimana prossima, non è per tutti. Occorre una volontà di ferro, oppure occorre non averne affatto. Se si ha il minimo dubbio in sé stessi si rischia di umanizzare uno sport che di umano ha poco o nulla. Ed è in questo tranello che è caduta Bouchard quella sera a Montréal. Pian piano, BOB ha cominciato a consumare questa campionessa mai nata fino a distruggerla.

Quel giorno Genie ha capito non solo che una finale a Wimbledon non garantisce una vittoria facile al primo turno del torneo successivo, ma anche che le sconfitte contro le illustri sconosciute non sarebbero state più ammesse. E se non si mette tutti sé stessi, tutta la propria voglia di vincere, per evitare che altri disastri accadano, si rischia di rimanere travolti. Quello di Bouchard, ovviamente, non è un problema di tennis. Non si è mai parlato della crisi tecnica di Bouchard, in tutto questo tempo, perché c’è ben poco da aggiustare: lei è una baseliner classica che punta a comandare lo scambio fin dal primo colpo, con dei problemi a rete quasi imbarazzanti ma che non le hanno certo impedito di arrivare in finale a Wimbledon.

Alla luce degli ultimi tre anni, viene da pensare che la campionessa già pronta a dominare il tennis non era così consapevole di quello che l’attendeva. Eppure tutti ci eravamo ingannati sulla sua maturità, sulla sua capacità di gestire la la pressione. La Bouchard che abbiamo visto nei primi mesi del 2014 era una Bouchard che ci ha fatto credere di essere solida nella testa quanto nei suoi colpi da fondo campo, ma che nella realtà era più fragile mentalmente del suo lacunoso gioco a rete. La prima crepa si è trasformata velocemente in una voragine, e dietro a quelle voragine abbiamo finalmente scorto la vera natura di questa ragazza che ha pur sempre 23 anni: una tennista forte, fortissima, ma poco propensa a dedicare tutta sé stessa allo sport del diavolo. È così che lo sport del diavolo ha lentemente consumato Bouchard fino a farla diventare uno spettro, una pallida riproduzione di sé stessa che continua a sorridere a chi le chiede un selfie e a twittare foto gioiose dalle città di tutto il mondo dove continuano a pubblicizzare il suo nome cose se fosse ancora l’invincibile ventenne di tre anni fa. Come se niente fosse, Laura Palmer ha continuato a recitare la parte della reginetta di Twin Peaksilludendoci di non essere stata uccisa davvero da BOB. Ma per quanto lo spettro di Bouchard continui a far finta di nulla, lei lo sa meglio di tutti che BOB è ancora là fuori.

Eugenie Bouchard


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