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La battaglia di Montecitorio

Il quartiere Parioli di Roma guarda via dei Campi Sportivi dall’alto. Macchie rosse e verdi, campi da tennis, da calcio e da rugby seguono il corso del Tevere fino ad arrivare a Prati. Ci sono i circoli migliori di Roma centro da queste parti, quelli dall’ingresso riservato ai soli soci. Una traversa di questa via, posizionata giusto prima del Canottiere Aniene, fiancheggia il fiume; è una strada senza uscita lungo la quale ci sono solo circoli sportivi, quello della Corte dei Conti, il Tevere Remo e il Tennis Club Montecitorio, la mia meta per il primo turno del torneo di terza categoria.

La luce delle sei del pomeriggio in questo ottobre romano che è tanto settembre rende più vivo il colore della terra perfettamente battuta dei tre campi principali del circolo, circondati da spazi verdi con l’erba tagliata uniformemente, le siepi alte, e i tavoli sotto i gazebo per guardare le partite. Dietro questi campi c’è una doppia scalinata che conduce alla segreteria del circolo, solo che devo attraversare la strada per raggiungerla.

Scrivanie di mogano, probabilmente scarti del parlamento, e armadi con ante a specchio per tenere in mostra targhe e trofei sono l’arredo della segreteria, dove incontro il mio avversario, un quasi trentenne credo classificato esattamente come me. Mi vado a cambiare, perdendomi subito nelle sale di rappresentanza di questa struttura, un po’ grand hotel. Salgo al primo piano e scopro, affacciandomi alla vetrata panoramica, gli altri quattro campi da tennis vicino al circolo, dove bambini figli dei soci, parlamentari o parenti degli stessi oltre che dipendenti della Camera, prendono lezioni di tennis. Apro una porta ma mi trovo una decina di signore intente a giocare a bridge e burraco su tavoli con i panni verdi. Chiedo a un funzionario la strada, mi indirizza due piani più in basso.

Quando sono pronto scendo in campo, però da tennis. Al bar, un edificio posto a lato dei campi con l’ampia vetrata che dà sul campo numero uno, l’acqua costa 50 centesimi. Io gioco sul campo tre, quello che si vede proprio da via dei Campi Sportivi. Alle sei il traffico è a pieno regime; le sgasate dei motorini, i clacson delle macchine e gli stridii delle frenate degli enormi bus che curvano per salire verso viale Parioli. Questo brusio continuo, il rumore di Roma, mi accompagnerà per tutta la partita.

Il mio avversario è mancino, e quando serve il primo punto io rispondo al centro del campo, lui alza un pallettone lento e profondo con il dritto sul mio rovescio. A fine scambio, dopo un mio errore, io ho già capito tutto: non tirerà una palla e io dovrò sudarmi ogni singolo punto di questa partita. Sciupo una palla break recuperando da 40-15 e mi siedo sulla panchina pensando a quel che mi attende. So che ci metterò un po’ per riadattare il mio gioco al suo mancinismo, cosa che non mi dispiace, ma so che dovrò essere molto più attento quando indirizzerò la palla sul suo dritto. Contrariamente a quanto ha fatto Federer (ma un po’ tutti, diciamo) contro Nadal, infatti, per aprire il campo contro i mancini bisogna prima giocargli sul dritto. La maggior precisione necessaria è dovuta alla rotazione mancina della sua palla che impone dei margini di sicurezza ulteriori quando colpisco.

La sala dove, con molta probabilità, a fine anno si fa il festone.

Passano i game, sofferti, e lui non tira un vincente. Io comincio a mettere a segno qualche colpo, corro molto, lui più di me, solo che io sbaglio anche qualche dritto di troppo nel tentativo di prendere l’angolo alla sua sinistra. Sul 3-3, quando vado al mio angolo per asciugare il sudore, do uno sguardo all’orologio: mancano cinque minuti alle sette. Quasi un’ora di gioco e ancora dobbiamo finire il primo set. Gioco due game perfetti in cui faccio otto punti di fila: vado sul 5-3. Il mio umore dovrebbe essere buono, so che è importante vincere il primo set e sono solo a un turno di battuta dal farlo. In questo momento, però, si manifestano tutti i fantasmi delle partite perse del passato, ma non nella forma del famoso “braccetto” del tennista, la paura di giocare il punto importante come se fosse un quindici normale. A me non succede di avere il braccetto: io non riesco a rimanere concentrato. Gioco il primo quindici e lo perdo, e un attimo dopo realizzo che era il punto più importante del primo set. Dovrei vincere assolutamente il secondo, ma spingo un dritto ad uscire sul suo dritto che non avrebbe cambiato in alcun modo le sorti dello scambio, e lo mando a rete. Poi stecco un rovescio. Poi boh, non ricordo, so solo che mi ritrovo sul 5-5.

Il momentum degli otto punti di fila, tutti giocati perfettamente, con pazienza, aspettando il momento giusto per l’accelerazione e scendendo a rete in controtempo una volta aperto il campo sul suo rovescio per chiudere una comoda volée, è finito. Sale 6-5, io ho ben due palle per il tie-break ma le sbaglio. Lo scoramento, che provo a mascherare in rabbia imprecando contro gli dei minori e contro questo sport di merda ma così democratico che permette di fare partita pari fra due tennisti con un divario tecnico così ampio come il nostro, governa il mio gioco. Mando un rovescio in rete e lui vince il primo set per 7-5.

Da quel 6-5 ho smesso di imprecare. Ho smesso proprio di parlare. Ho finito il set in silenzio e mi sono seduto con mestizia sulla panca, sorseggiando acqua mentre lo sguardo si perdeva sulle luci dei Parioli. È sera inoltrata, si gioca anche nei campi di fianco e il giudice passa a chiedere il punteggio. Inizio il secondo set e sono calmo. Mi sento benissimo fisicamente, sento che potrei correre per ore e cerco di concentrarmi sul fare la cosa giusta. So come devo giocare, come arriveranno i punti. Mi impongo di fare qualche volée in più, di avvicinarmi a rete quando lui rimette i soliti pallettoni lenti invece che caricare di nuovo da fondo campo queste palle senza peso e quindi più difficili da spingere. Faccio il break, vado 1-0 e servizio, ma dopo dieci minuti cambio campo sul 2-1 per lui.

Come si scrive un emendamento al tennis.

Ancora una volta, non riesco a mantenere il vantaggio. Dovrei allungare nel punteggio, far capire all’avversario che ho voglia di vincere e che questo set sarà mio. Ma, puntualmente, non riesco a giocare dei game tranquilli quando sono sopra nel punteggio; vorrei qualche punto gratuito, qualche suo errore, ma lui è avaro: non sbaglia una palla, vuole che sia io a determinare le sorti del punto. Sprofondo di nuovo nella mia inadeguatezza a rimanere concentrato, nel non riuscire a impiegare tutte le energie mentali nel piano di gioco, che conosco, che è quello giusto, che mi può portare alla vittoria ma che non riesco a praticare con continuità.

A questo punto la calma sparisce e torna la rabbia. Lui va facilmente sul 4-1, non prima di aver trovato modo di discutere su una palla, un mio dritto incrociato chiuso e che ha toccato palesemente la riga ma che lui chiama subito fuori, avvicinandosi poi a controllare il segno non appena io protesto, concedendomi infine il punto ma con fare risentito. Lui è un bravo ragazzo, sembra gentile, e durante tutta la partita mi ha detto “bravo” o battuto il palmo della sua mano destra sulla sua Babolat ogni qual volta ho messo a segno un vincente. Sembra sincero quando mi fa i complimenti, come se veramente apprezzasse, quasi invidioso, le mie chiusure da fondocampo, sia di dritto che di rovescio.

Sul 7-5 4-1 i miei umori sono cambiati almeno tre volte. Calma, scoramento, rabbia. Mentre mangio una barretta energetica al cambio campo prendo il telefono e scrivo nella chat della squadra di calcio. Fra qualche ora abbiamo la semifinale del torneo di calciotto, siamo in formazione rimaneggiata e io dovrò pure giocare. Provo a sfogare la mia rabbia con loro, scrivendo il punteggio. Qualcuno mi dice di non mollare, qualche altro è meno gentile e mi dice che “se stasera poi ci fai prendere gol perché sei stanco te meno, OMISSIS”.

Io so che posso recuperare ancora, perché questa partita, ogni singolo punto, è sulla mia racchetta. Gioco un buon game e accorcio sul 2-4. Riesco a procurarmi una palla break. Giochiamo uno scambio lunghissimo; io lascio spesso scoperto il lato destro del campo, perché quando gli gioco sul dritto lui indirizza verso il mio rovescio ma io mi sposto per colpire di dritto verso il suo di rovescio. Lui di solito accorcia e io sono chiamato a giocare il colpo definitivo. Su uno di questi dritti incrociati lui gioca un backspin lungolinea, la palla è fuori. Sarebbe break, ma io non la chiamo. Di sera non ci vedo benissimo, e nonostante il campo sia ben illuminato io non individuo subito il marchio e continuo a giocare perdendo il punto. Lui va 5-2 e io passo a controllare il segno nonostante sapessi già che era fuori. Mi dispero.

Sono passate oltre due ore di gioco e io mi ritrovo a servire sotto per 2-5. Sono di nuovo arrabbiato. Impreco tantissimo ma con un tono di voce tale da non farmi sentire lontano dal campo; vorrei stare zitto, vorrei controllarmi, vorrei essere calmo, ma in quei momenti vorrei solo distruggere la recinzione, dare fuoco alle siepi. Eppure basterebbe impegnare la mente per un po’ di tempo solo nel colpire la pallina da tennis. Ma non ci riesco. Gioco comunque un ottimo game, metto in campo tre prime di fila che mi valgono tre punti diretti e accorcio sul 3-5: inizia il game decisivo.

Vado subito 0-15 chiudendo un bel dritto. Lui si porta sul 30-15 ma io faccio il punto seguente: 30-30. Stecco un rovescio e lui va a match point. Mette in campo la prima e lo scambio si allunga. Non riesco a portarlo nella mia comfort zone, la diagonale di destra; questa volta è lui che spinge sul mio rovescio col dritto mancino. Io colpisco di rovescio sempre sul suo dritto, una volta, due volte, tre volte. Al quarto rovescio, sempre su quella diagonale, libero il lungolinea: è un vincente. Lui mi fa i complimenti. Faccio il punto seguente, vado a palla break. Comando lo scambio, vado a rete, colpisco una volée di dritto abbastanza corta, lui ci arriva e con la testa della racchetta rimette nella mia metà campo di fronte a me: la palla ha un effetto strano, rimbalza cortissima sotto la rete e io, capito che avrei dovuto colpire la palla dopo il rimbalzo, ho già rimesso l’impugnatura molto aperta del dritto invece di rimanere con la presa Continental. Colpisco e mando a rete. Lui va di nuovo a match point. C’è un nuovo scambio, io gioco il tutto per tutto e scendo a rete avventatamente. Lui mi fa un passante di dritto incrociato, io mi abbasso, mi estendo verso sinistra e colpisco con una volée incrociata di rovescio stoppata che è vincente. Vado di nuovo a rete nel punto seguente, che è analogo: altra volée e nuova palla break. Sbaglio di nuovo da fondo campo, ma arriva un’altra palla break. Lui questa volta, per la prima volta nella partita, rischia il servizio. La sua prima batte sulla riga e io non riesco a controllare il rovescio. Serve da destra e forza di nuovo la prima, altro punto. Serve da sinistra, sul terzo match point, e il mio rovescio in risposta alla sua terza prima di fila finisce fuori di metri. Lui esulta, urla, è contento ma poi farfuglia un qualcosa, mi pare che si stia auto-accusando di essere una pippa. Intanto ha vinto, anche se ha giocato da pippa.

Io mi ero incitato sulle ultime palle break, una cosa che non faccio mai. Avevo detto un “dai”, forse un “vamos”, ma non è servito a evitare il fallimento. Quando lo raggiungo a rete ci diamo la mano ma in maniera moscia, quasi schifati nel compiere questo gesto. Neanche lo guardo in faccia e tiro dritto verso il mio angolo. Bevo, mi fermo qualche minuto. Scrivo a mia moglie, chiedo se mio figlio è già a letto e informo i compagni del calcio che a breve sarò al campo a correre di nuovo.

Cerco di capire cosa è successo o meglio, il perché di questa sconfitta. Delusione, rabbia, mestizia, fallimento. Questa partita di tennis appena persa non conta niente nella mia vita ma in quel momento è tutto. Non riesco a capire, neanche questa volta, perché non riesco a controllare le mie emozioni durante la partita, perché non riesco a isolare per un paio d’ore il mondo esterno per colpire una pallina per vincere il singolo punto e poi rifare il tutto nel punto immediatamente successivo. Non ci riesco. Ogni volta mi riprometto che quella dopo sarà quella giusta, ma poi succede esattamente la stessa cosa.

Salgo le scale per andare a farmi la doccia. Mi ferma la giudice, io l’anticipo: «Ha vinto lui 7-5 6-3». «Ma come lui? Con il bel gioco che hai?». «Colpire bene a questo gioco non serve a niente». Quella che potrebbe essere una frase a effetto del cazzo, una battuta da fine film, altro non è che una giustificazione che do a me stesso. Ho finito di giocare ma la mia mente continua a fottermi.


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