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A Roma nord non passa lo straniero

Quanto tempo è passato dall’ultima volta? Troppo. Non conta quante volte giochi a tennis durante la settimana, quante volte batti i tuoi compagni di allenamenti: solo il torneo può dirti veramente quanto vali. Iperboli a parte, che poi se la moglie legge verga un durissimo ritorno alla realtà, per i tennisti di periferia il ritorno della legalità, nel senso dell’ora, è il segnale: bisogna tornare a giocare al torneo.

Abbiamo passato mesi ad allenarci; poco, visto che il lavoro si quantifica ancora con gli orari, il badge, le presenze, e non con la qualità, come se avere Federer o Ferrer in ufficio fosse la stessa cosa, bah. Abbiamo cambiato racchetta, ché la precedente limitava le nostre performance forse dello 0,3% ma con questa nuova vedrete, ah sì se vedrete cosa siamo capaci di fare, specie ora che abbiamo anche la scarpa con il nuovo sistema di ammortizzazione che promette di restituire indietro l’energia derivante dagli urti, sperando ne rimanga un po’, manco fossimo in parlamento. E poi la pioggia, il freddo, e la decisione col solito sparring partner di dedicarsi più alla palestra, lui, e al calciotto, io, come attività sportive del lunedì-venerdì, per poi rivedersi al circolo al sabato e sperare nel bel tempo per allenarci un po’ in attesa del caldo e del ritorno alla luce.

Con i mesi trascorsi così, con il ritmo di una partita alla settimana, talvolta neanche quella, e neanche un campionato a squadre da giocare durante l’inverno perché al circolo abbondano i quarta ma scarseggiano i terza categoria, arrivo comunque in buona forma all’appuntamento con la gara. Dispiace, ma fino a un certo punto, aver rinunciato all’Over 40 a squadre per colpa di Paro, il terzo giocatore della rosa insieme a me e a Eddy, che oltre a non presentarsi al circolo non risponde più neanche ai messaggi whatsapp. “Testa di cazzo” credo sia l’ultima frase scritta in quel gruppo a tre oramai archiviato. Non rimangono che i tornei individuali, meglio quelli per veterani, e cioè riservati agli over come me, così da scansare i ragazzi: nell’Over 40 il tennista più giovane che potrò incontrare al massimo avrà due anni in meno. Le prime tappe del circuito “Città di Roma”, che si gioca in prevalenza in quei circoli di Roma Ovest immersi nel verde, sono già finite. La prossima è in programma al Due Ponti, vicino casa: perfetto.

A fine marzo le giornate si allungano e Roma cambia luce. Ogni tanto piove ancora, poi ci si mette pure Pasqua e quindi il primo turno viene spostato di continuo. Quando arriva il giorno di gara, nelle gambe ho solo un allenamento con Mauro, compagno di circolo che corre e rimette la palla dall’altra parte come missione di vita. Per me rappresenta sempre un test: se lo batto vuol dire che i colpi sono sufficientemente allenati per fare torneo. La vittoria è schiacciante. Sto giocando molto bene, sono tornato finalmente a servire bene e la nuova racchetta è un modello leggermente più leggero della solita clava. Ora gioco meglio e pazienza se in classifica sono sceso di un gradino rispetto all’anno scorso.

Quando arrivo al circolo, nel tardo pomeriggio di un qualsiasi giovedì, il sole splende alto anche se al mattino ha piovuto. “Sono qui per il torneo di tennis” è l’apriti sesamo degli stranieri quando arrivano al Due Ponti, profonda Roma nord, circolo dei giovani facoltosi, dei vip fatti e finiti (naturalmente male) e degli aspiranti tali e dei vecchi che si sentono giovani senza esserlo mai stati. C’è il solito via vai frenetico fra segreteria del tennis e bar, gente abbronzata che incrocia gente abbronzata, che passeggia salutando soci abbronzati che si dirigono ai campi mentre donne abbronzate si avviano ai campi di padel. La piazzetta prospiciente la palestra, affollatissima, è piena di affabili conversatori di niente, nei tavoli esterni al bar-ristorante le mamme attendono che i loro ariani pargoli finiscano le lezioni per portarli chissà dove. Passa quello di Striscia la notizia, poi entra Massimo Ciavarro, e chissà quanti altri ne passano che non riconosco, d’altronde, questo è il circolo degli AA di Boris, gli “abbronzati abbienti”.

La terra dei campi a vederla è scura, deve essere ancora molto umida, impressione confermata quando io e il mio avversario, un coetaneo, passeggiamo su uno dei campi periferici. Lui è un 3.4, classificato meglio di me quindi, e dai palleggi mi accorgo che colpisce abbastanza bene la palla, specie con il rovescio che effettua solamente col taglio sotto. Sembra simpatico, almeno dalle chiacchiere che abbiamo scambiato prima di iniziare, le classiche small talk pre gara: “dove giochi? di che circolo sei? Ah ma dai io conosco tizio là”, ché Roma è grande ma se giochi a tennis e specie a un livello discreto insomma.

Giochiamo qualche game con le luci artificiali la partita è equilibrata. Io sciupo qualche palla break, entrambi facciamo qualche bel punto, lui addirittura mi chiude un lungolinea di rovescio lasciandomi basito, F5. Quando serve sul 2 a 2, però, io riesco a fare il break. Allungo sul 4 a 2, lui rimane in scia ma sul 5 a 3 e con lui al servizio vinco nuovamente il game: arriva un 6-3 abbastanza agevole. Sto giocando bene, sono più forte di lui, so fare più cose e pure quelle che lui fa bene io le faccio meglio.

Nel secondo set allungo subito sul 2 a 1. Serve lui e sul 15 pari gli rispondo con un dritto carico sul suo rovescio. La palla rimbalza molto alta, lui effettua un back di rovescio molto bello e profondo, peccato sia fuori. Marco il segno ma lui non si fida. Lo invito a verificare di persona.

«Non c’è spazio, è buona».
«Per me lo spazio c’è».
«Chiamiamo il giudice».

Al cellulare, visto che stiamo lontani dalla segreteria. Stiamo una decina di minuti fermi, e quando arriva gli raccontiamo la genesi del punto. L’avversario cerca di portare acqua al suo mulino, ma il campo è talmente malmesso che è impossibile stabilire se ci sia spazio o meno. Il giudice mi dà ragione, ci ho visto bene. Allungo sul 4 a 1 in dieci minuti e lui si innervosisce. Imbastisce una discussione dicendo che io perdo tempo, che ci metto troppo a riprendere il gioco fra un punto e un altro. Me lo dice quando io sto per servire, allora io mi fermo e faccio qualche passo in avanti, facendogli capire che dalle small talks adesso è ora di passare alle discussioni livello talk show politico, ché tanto poi se il tutto degenera rientra nella mia comfort zone. Alla sua obiezione io chiedo: «Quindi vuoi dirmi che passano più di 20 secondi fra un punto e l’altro?». Lui rilancia: «Eh ma io quando sto per battere non sei pronto mai». «Certo, perché vai di fretta e io non sono pronto».

Il fatto è che lui è un à la Federer, il tipo di giocatore che è pronto a servire non appena l’arbitro ha chiamato il punteggio, uno di quelli che fra la prima e la seconda palla non ha pause. Più volte, per trovare la concentrazione in fase di risposta, mi ritrovo ad alzare la mano. A lui questo non sta bene. Più tardi chiederò al giudice come ci si comporta in questi casi, lui mi risponderà che “la regola dice che bisogna adeguarsi al ritmo dell’avversario, ma che di certo non può battere se io non sono pronto”. Chiudo la discussione in campo invitandolo a «fare un po’ come te pare, batti quando io sto seduto sulla panca». Poi però, il tipo, si comporta da gran signore. Su un punto importante, per andare sul 5 a 1, un palla non rimbalza nel mio campo. Colpisce terra e si ferma, dentro una buca. Lui mi fa fare due palle, perde il punto e io vado sul 5 a 1. Chiudo 6-3 poco dopo, rimontando l’ultimo game dal 15-30 giocando in maniera molto concentrata e precisa. Stretta di mano gelida, vaya con dios amigo.

La luce di aprile che a Roma fa tornare verde il verde

Al secondo turno ho un altro 3.4 da affrontare. Non è del circolo, e iniziamo a palleggiare sul campo 5, più centrale rispetto a quello del giorno prima. Questo è illuminato anche meglio dell’altro, solo che le palline che ci consegna il giudice sono già consumate, praticamente diventano marroni dopo mezz’ora. Nel frattempo, fino a quando le palline rimbalzano rapide, vado sul 5 a 0. Lui è inebetito: faccio vincenti praticamente da ogni angolo, le sue arrotate di dritto e rovescio non mi danno fastidio e io riesco a spostarlo da una parte all’altra del campo per poi chiudere quando accorcia. Ha un qualcuno che lo accompagna e lo consiglia, ma quando ci sediamo al cambio campo lui esclama abbastanza scorato: «5 a 0, bravo te». Chiudo 6-2 poco dopo, vado subito in vantaggio di un break e ci ritroviamo di nuovo al cambio campo.

«Senti, poi quando hai finito de famme a pezzi me dici come fai a esse 3.4».
«Infatti sono 3.5».
«Se vabbé», risate.

Intanto mi guardo intorno, e il livello di gioco si è alzato rispetto al giorno prima. Questo turno è l’ultimo del tabellone intermedio. Se batto questo avversario accedo ai quarti di finale, dove ci sono le teste di serie. Il circuito veterani “Città di Roma” è infatti il palcoscenico dei migliori atleti del tennis romano. Ci sono tutte le categorie fino all’Over 70, maschile e femminile, si vedono over 55 colpire ancora con molta forza, over 60 correre in lungo e in largo in campo con fisici che tradiscono un agonismo pluridecennale.

Intanto le palline sono diventate ingiocabili. Decido che non è più tempo di cercare vincenti al servizio, e quindi mi accontento di mettere la prima in campo scegliendo la palla con meno pelo, che quindi andrà più veloce dopo il rimbalzo. Perdo un game che non dovrei perdere, lui sembra crederci ma neanche tanto, vado ancora sul 5 a 1 ma mi faccio rimontare: chiudo 6-2 giocando l’ultimo game più di spada che di fioretto. Avanti così, abbandono il Due Ponti nell’oscurità preparandomi a ritrovarlo illuminato dalla luce che solo Roma mette in scena ad aprile.

***

Al sabato vado con la famiglia. Non si trova parcheggio, al circolo ci saranno un migliaio di persone. Immagino a come mi sentirei a far parte di questo agglomerato di persone che scelgono un circolo enorme e dispersivo da frequentare più giorni la settimana. Il mio è a dimensione quasi familiare, ci si conosce tutti, quando arriva un nuovo socio il passaparola è lo strumento informativo più efficace, al Due Ponti invece la novità non fa più notizia. Non a caso nello spogliatoio incontro un dirigente federale fresco di nomina, uno di quelli che contano. Raggiungo la segreteria e conosco il mio avversario.

Ha l’aspetto curato, ovviamente è abbronzato, ha addirittura la crema solare già spalmata sul naso. È del circolo, infatti ci destinano al campo numero 1, il centrale, vicino al ristorante. Spocchioso come solo un true roma nord sa essere, percorriamo il tragitto in silenzio, senza parlare, ed è tutto un “daje Fiocco”, gli incoraggiamenti dei suoi sodali con il vezzeggiativo del suo cognome accompagnato dagli high five, con io a fare la parte dello straniero e quindi della vittima predestinata.

In effetti in un quarto d’ora Fiocco sale sul 3 a 0. Avrà qualche anno più di me, è ovviamente in perfetta forma fisica, gioca con il suo Baume & Mercier al polso e tocca molto bene la palla: colpisce il dritto piatto ma indirizza perfettamente in angoli del campo dove solo quelli bravi riescono a mettere la palla. Sul rovescio gioca un back che rimbalza bassissimo, con molto taglio. Al servizio non mi crea problemi. Solo che io perdo due turni di battuta a zero e faccio doppi falli. Sono praticamente fuori partita. Sarà la tensione mi dico, anche perché non riesco praticamente a fare un cazzo.

Assiepati sul lato del campo ci sono i suoi sostenitori. Perdo un altro game, sono sotto 4 a 0. Non sono arrabbiato, sono consapevole che non sto giocando bene pur avendo capito cosa devo fare. Servirebbe l’incoraggiamento della famiglia. Il fatidico silenzio che precede l’inizio del game viene rotto da mio figlio, che si alza dalla sedia, mi viene incontro e dice a voce alta: «Ciao papà, noi andiamo al ristorante». Agita proprio la manina mentre si avvia a pranzo mentre tutti scoppiano a ridere, me compreso. Conquisto il primo game, accorcio sul 4 a 1 ma lui gioca bene, piazza molto bene la palla che rimbalza sempre bassa anche quando colpisce col dritto e chiude per 6 a 1 un set molto comodo.

Mi viene in mente un mio vecchio maestro di tennis che aveva il figlio molto scarso e che, come consiglio quando questo giocava il torneo, prima ancora di parlare di tattica e schemi, gli diceva: “falla durare”. Inizia lui al servizio e io riesco a fare il break in apertura. Cerco di giocargli in top spin alto sul rovescio, che lui rimanda sempre in back e verso il mio lato sinistro; a me il suo back non dà fastidio: sto bene fisicamente e quindi pianto bene i piedi a terra sia quando arroto con il rovescio coperto che quando mi sposto a sinistra per colpire di dritto. La tattica è insistere sul rovescio caricando da quella parte e “cambiare”, e cioè tirare nell’altra direzione, sul suo dritto, solo quando l’ho spinto abbastanza fuori dal campo. Funziona.

Tengo agilmente il servizio anche perché faccio diversi vincenti. Arrivano i primi applausi anche ai miei punti. Il mio ritmo di gioco è molto più alto del suo, devo solo stare attento a non farlo giocare palle comode, e cioè ad altezza anca, ma devo caricare i miei colpi per allontanarlo dalla linea di fondo. Ad un certo punto scambiamo sulla diagonale di rovescio diverse volte. Io accetto la sfida del backspin, e giochiamo due, tre rovesci di fila entrambi col taglio sotto. Io sono in attesa della palla buona, che arriva ancora sotto la forma di un rovescio in backspin, profondo ma non troppo. Allora pianto il piede destro portandolo avanti al corpo in maniera che il busto si torca verso sinistra, il braccio inizia il suo giro e quando la palla arriva sbraccio a tutta forza. La palla esce veloce e percorre un’immaginaria linea retta esattamente davanti a me. Il lungolinea di rovescio è imprendibile, vincente, liberatorio.

Vado 3 a 0 col doppio break e lui sbrocca. Lo capisco, è al suo debutto, visto che è una delle teste di serie del tabellone finale, forse pensava di avere un turno facile. Poi è sabato al Due Ponti, è il dì di festa, c’è praticamente tutto il circolo, i compagni, la famiglia, e lui deve vincere pena l’ingiuria. E invece è sotto 3 a 0 contro uno sconosciuto di provincia che si è ricordato di giocare il tennis migliore della sua vita quando ha oramai passato i quaranta.

Salgo 4 a 0, perché la tattica sta funzionando. I vincenti arrivano copiosi e uno di questi è meraviglioso. Sul solito scambio sulla diagonale di sinistro lui effettua una smorzata perfetta. Deve avere le corde molto lente sulla sua racchetta, quando colpisce la palla questa praticamente non fa mai rumore, come se l’accarezzasse. Corro in avanti verso sinistra quasi alla disperata ma sento che posso farcela. Invece di rimettergliela lunga provo la controsmorzata frontale, e cioè effettuando un movimento che taglierà la palla sotto cercando di non metterci il peso del corpo, visto che colpirò in corsa e sbilanciato in avanti. La palla esce dalle mie corde abbastanza alta e rimane nella mia metà campo per parecchio, se per parecchio possiamo considerare una frazione di secondo; ma è così che deve andare, perché è una smorzata alla Paire, quella che quando passa la rete cade a goccia, rimane corta e quindi imprendibile. Mi batte le mani anche lui, avaro di complimenti.

Lui commette qualche doppio fallo di troppo e la moglie glielo fa notare, gli dice che ha problemi con il lancio di palla. Io guardo la mia di moglie, e sta vicino a mio figlio con il telefono in mano, probabilmente a fare un carrello su Zara, indignata dal profluvio di Hogan che calpestano i sacri viali del Due Ponti. Lui riesce a vincere un game e accorcia sul 4 a 1. Ed è che qui una una signora tutta azzimata con i capelli argentati dei Targaryen, vestita con un cappottino in cachemire nonostante i 20 gradi, si abbandona con i modi della sora lella: “Daje Giovè faje vedé chi semo”. Sorrido.

Ora è dappertutto, ma è qui che è nato.

Sul campo di fianco, intanto, c’è un altro match over 45. Il livello è altissimo. Gioca un giocatore del Canottiere Aniene, un avvocato che di fatto è un tennista professionista e che ho conosciuto quando abbiamo giocato contro un anno fa in un match di campionato a squadre. Anche lui ha l’orologio al polso, un inconfondibile Rolex. Gioca contro un tennista che non è di queste parti. Lo capisco perché è vestito normale, non ha nessuno scudo di un circolo blasonato sul cuore. I due litigano, perché l’avvocato pare che rubi qualche palla, e quando mi avvicino a raccogliere una pallina il suo avversario si rivolge a me dicendo “ammazza quanto è pezzo de merda questo”. Sorrido, sperando che anche lui riesca a prevalere in questa che è la roba più vicina ad una lotta di classe che si può trovare di questi tempi.

Chiudo il secondo set per 6-1 rimontando un game in cui lui era 40 a 0, giocando benissimo e mettendo a segno un vincente di dritto che lo lascia a due metri dalla palla. Ogni tanto guardo il pubblico, qualcuno mi sorride entusiasta del mio gioco, più audace rispetto alla strenua difesa del Fiocco de casa. Che sembra un po’ preoccupato, adesso. Al cambio campo il giudice viene verso di me e mi dice che sto dicendo troppe parolacce. Intende le bestemmie ovviamente, che io pensavo non fossero udibili. «Alla prossima applico il codice» mi ammonisce.

Entrambi mangiamo. Il sole ci rosola la pelle. Guardo le mie bracce e gambe e decreto che sono le uniche non abbronzate del circolo assieme all’altro compagno che lotta nel campo di fianco contro l’avvocato romano con la carnagione da generale argentino.

Perdo subito il servizio in apertura di terzo set, malamente, e lui allunga andando sul 3 a 1. Io rifletto, mi dico che sono chiaramente in partita e che posso batterlo. Tengo il turno di battuta, e mi preparo a giocare al meglio la fase di rimonta. Sento che questa è la partita che voglio giocare; nei due turni precedenti ho fatto il mio dovere, sono state vittorie agevoli, ma adesso devo guadagnarla questa vittoria contro Fiocco.

Ogni tanto me lo guardo, e penso che ha il classico atteggiamento strafottente del ragazzo di Roma nord cresciuto nell’agiatezza. Guardo la moglie firmata dalla testa ai piedi con gli occhiali da sole all’ultimo grido. E poi i suoi genitori, la mamma che parla col plurale maiestatis e il papà, anche lui tutto azzimato e curato. Ripenso alle mie origini, al mondo diverso che viviamo pur vivendo nella stessa città. Sorrido sardonicamente giusto per me.

Accorcio sul tre a due, sono in partita. Serve lui e alla seconda palla break riesco a riagganciarlo sul tre pari. Saranno due ore che giochiamo, anche perché vedo moglie e figli posizionati nuovamente ai margini del campo, sempre sguardo ai telefoni. È un gioco decisivo. Vado sotto 15-30 ma riesco a risalire e a portarmi sul 40-30. Risponde aggressivo e chiude a rete una facile volée. Ma io, sul 40-40, servo un’ottima prima esterna e vado in vantaggio. Servo sul rovescio, risponde al centro del mio campo ma la palla prende una buca, cambia completamente rimbalzo e io colpisco malamente mandando la palla a rete. Si scusa. Fa il break poco dopo, serve e allunga sul 5 a 3 esultando di rabbia quando fa il punto sul 40-30. Servo, voglio rimanere in partita e ci credo ancora. Vado 0-15 perché un mio vincente esce di 2 centimetri. Vado 0-30 perché un mio dritto colpisce il nastro e rimbalza nel mio campo. Vado 0-40 perché sul suo ennesimo back di rovescio mi rendo conto che le mie gambe sono stanche e lesinano passettini di aggiustamento per impattare al meglio quelle sue traiettorie che muoiono quando toccano terra. Vado a rete a stringergli la mano senza dirgli nulla quando un mio dritto esce fuori di poco.

Esulta la sua truppa, mia moglie si alza di scatto dalla sedia perché ha capito che è finita. La paura degli amici del Fiocco è passata. Io varco il cancello e mi viene incontro un socio del Due Ponti. «Complimenti, bella partita, hai un gioco meraviglioso e sei veramente bravo». Sorride convinto mentre me lo dice, sembra sincero. Lo ringrazio sentitamente. Addirittura, lo incontrerò di nuovo al bar e mi inviterà a giocare al circolo, “quando vuoi io sono qui”, mi dice. I titoli di coda li scrive mia moglie, che mi sorride perché è contenta di avermi visto giocare, quella volta all’anno che capita, però è arrabbiata quasi quanto me. “Peccato, poteva esse’ la rivalsa della provincia contro ‘sti ricchi del cazzo”. Amen.


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