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Murray e le ATP Finals: ma sono così importanti?

La ventilata ipotesi di Andy Murray di non prendere parte alle Finals di Londra per preparare al meglio la finale di Coppa Davis è stata oggetto di sorpresa, qualche sfottò e anche di qualche curiosa forma di mugugno. Ma come, si argomenta, adesso la Coppa Davis è più importante del torneo dei Maestri?

È forse l’occasione di provare a scrostare qualche convinzione abbastanza superficiale su un tema che può apparire irrilevante – e magari lo è – ma che viene usato da molti come sorta di passepartout per arrivare a definire i grandi campioni. Chi sarebbero i “grandi campioni”? Quelli che vincono i grandi tornei. E quali sono i “grandi tornei”? Quelli più importanti. E come si fa a definire l’importanza di un torneo?

Ecco, lo sport, e il tennis in particolare, può essere unanimamente d’accordo davvero con poche asserzioni così nette. Persino Wimbledon, ormai assurto più a leggenda che torneo, alla fine ha una sua importanza relativa.
Mettiamoci infatti nei panni di un giocatore che ha vinto cinque volte Wimbledon e mai il Roland Garros. O cinque volte Wimbledon e mai lo Us Open. Vedete da voi come il giocatore in questione comincerà a considerare Wimbledon sotto una luce affatto diversa. Se poi torniamo indietro nel tempo, le difficoltà di affrontare lunghe traversate finivano con l’incidere notevolmente sulla voglia dei giocatori d’oltreoceano di presentarsi puntuali ai cancelli di Church Road. Senza arrivare a questi estremi, ancora nei recenti anni ’90 c’erano giocatori che per caratteristiche tecniche a Wimbledon ci andavano giusto per lamentarsi che l’erba era per le vacche, oppure non ci andavano proprio.

(Thomas Muster era uno di questi: quando era nei primi cinque del mondo – è stato anche numero 1 per qualche settimana, scalzando Sampras dal trono – preferiva giocare il torneo Challenger di San Marino piuttosto che farsi una specie di gita fuoriporta sull’erba inglese)

Insomma, l’importanza di un torneo come concetto oggettivo non esiste. E diventa sempre più impalpabile se ci si rifugia in assurde considerazioni di tipo economico. Agli inizi degli anni ’90 si giocava una cosa oscena che si chiamava “Coppa del Grande Slam”. Era un torneo organizzato dall’ITF in chiara polemica con l’ATP. Decisero di dotarlo di un montepremi che ai tempi era faraonico: 1,5 milioni di dollari per il vincitore, che diventavano 2,5 se per caso avesse già vinto un altro torneo dello slam. Risultato? Vincitori come il buon David Wheaton, Magnus Larsson o Greg Rusedski, e finalisti come Brad Gilbert, brava gente (più o meno) ma che è difficile considerare fuoriclasse.

Via via che si scivola dal generale al particolare le cose si complicano ulteriormente. Non tutti i tennisti sono interessati alla gloria eterna e questo non fa di loro dei tennisti meno scadenti. Considerare uno come Marat Safin meno forte di fa sorridere, però una volta, quando gli dissero “credevamo potessi diventare forte almeno quanto Federer”, lui allargò le braccia, indico un paio di safinette al suo fianco e disse “beh, vi siete sbagliati”. Ma lo sport è pieno di giocatori che hanno scelto altro all’alienazione dei campi di tennis – e qui sì che forse Wimbledon rappresenta un modello inarrivabile, con i suoi riti fordisti che travalicano qualsiasi soggettività, forse persino quella di uno come John McEnroe – persone più che tennisti, che andavano a pescare prima della semifinale di uno slam, che scalvano montagne prima di un torneo che insomma avevano altre priorità.

Cosa c’entri questo con il reale valore tecnico, con l’essere più o meno forte (qualsiasi cosa significhi) sfugge. O, per dirla in termini meno paludati, non c’entra niente. Così Andrew Barron Murray, riscoperta una vena patriottica può tranquillamente stabilire che conta di più andare a Gent che rimanere a Londra, senza che questo autorizzi i posteri a ritenerlo meno forte di Djokovic o Federer per questo motivo. Meglio cercarne altri, se li hanno.

Andy Murray


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