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Quant'è triste la vittoria. Pennetta, Vinci e una finale evitabile

Chissà perché il giorno della gioia viene in mente la ormai nota – grazie a Wawrinka, che giri tortuosi per arrivare al grande pubblico – sentenza di Beckett sul prepararsi meglio per fallire meglio. Eppure Roberta Vinci e Flavia Pennetta hanno raggiunto il miglior risultato della, ahi loro non più giovane, carriera e piuttosto che farsi cogliere da vene di malinconia oggi sarebbe il giorno di esaltarle.

Flavia Pennetta, per la verità, alle semifinali dello US Open ci era già arrivata appena due anni fa. Sconfiggendo proprio quella Roberta Vinci che invece era stata maltrattata nei suoi due precedenti quarti newyorkesi e sempre da connazionali, Errani prima e appunto Pennetta poi. Ma chissà come Flavia ricorda quell’avventura contro Victoria Azarenka, che allora sembrava inscalifibile e che in effetti non diede mai nessuna possibilità alla ragazza nata a Brindisi poco più di 30 anni fa. Già allora i 30 erano stati varcati e davvero in pochi si sarebbero aspettati una seconda opportunità. Non perché il tennis femminile sia frequentato da inappuntabili professioniste tutte casa e tennis come sembra succeda tra i maschietti. Quanto perché lei stessa è una giovane donna che non disdegna le attività extrasportive e che sembrava, e che sembra, proiettata a immaginare cosa farà da grande, quando le racchette e le interviste non ci saranno più e ci si deve pur inventare la vita.

E in quest’epoca di monomaniaci, condizione necessaria per primeggiare è una sorta di autismo mirato, di psicosi, se volete: oltre al tennis deve esserci solo il tennis e poi ancora il tennis. E non è detto che basti. Senza troppi rimpianti, ma contenta dell’incredibile risultato del 2013, anno in cui era stata persino fuori dalle top-100 per via del ricorrente problema al polso, Flavia Pennetta aveva prolungato la seconda gioventù agonistica vincendo addirittura Indian Wells, il successo più prestigioso mai ottenuto da una tennista italiana dopo il Roland Garros di Francesca Schiavone. Ma l’aria era sempre quella, è sempre quella, di chi sta facendo la tournée finale, visitando luoghi che una volta erano pieni di speranza magari per vedere che effetto faceva. Però era un dignitoso declino, soprattutto sul cemento. Due quarti di finale Slam (Melbourne e la solita New York) la finale del Masters B e poi le delusioni del 2015, con sprazzi di bel gioco e rimpianti. E quando forse non te l’aspetti più, arriva l’incredibile torneo, fatto di grande sofferenza, rimonte intervallate da vittorie in due set. Fino alla vittoria con Petra Kvitova, che sembrava essere diventata la sola a poter impedire il Grande Slam di Serena. Flavia arriva alla sesta partita, la più importante fin qui ma meno dell’eventuale prossima, contro un’avversaria che partirà anche con i favori del pronostico ma non è certo l’irresistibile Azarenka di due anni fa.

Ma l’intreccio tutto sommato più interessante, l’aggrovigliata matassa di sensazioni, timori, desideri è dall’altra parte del tabellone. Dove è arrivata una ragazza che sembrava prossima al ritiro, precipitata in classifica, incapace, sembrava, di far del male con quel rovescio tagliato che non sembra avere la potenza e l’efficacia di quello di Stan the Backhand. Complice il più incredibile tabellone di tutti i tempi (sono iperboli, e poi se la ricordano tutti la colombiana Fabiola Zuluaga e il suo Australian Open del 2004… vabbè, quasi tutti), Roberta Vinci si trova al cospetto della piccola Tyson, come l’aveva definita un ingeneroso Tommasi, sconvolto anche lui dalla potenza sprigionata da Serena Williams. Roberta ha scritto pagine storiche del tennis italiano ma sempre insieme a Sara Errani, di cui lei è sempre stata la chioccia, la spalla su cui appoggiarsi. Se magari vedendole giocare si poteva avere qualche dubbio su chi fosse la figura dominante di quella coppia, era fuori che si mostrava la differente personalità delle due ragazze, la timida belvetta che è Sara e la matura e consapevole signora che è Roberta. La separazione non ha portato bene – che in fondo avevano raggiunto i loro migliori risultati in singolare quando vincevano i doppi – e ha allontanate entrambe dalle zone alte della classifica. E dagli ultimi turni dei tornei dello Slam. Proprio quando tutto sembrava finito, Roberta ha avuto in regalo questo dono inatteso e lo ha colto da donna matura. Sa che non tutto è dipeso da lei ma che importa? Il problema è che questo potrebbe anche diventare un dono pericoloso. Il regalo potrebbe trasformarsi in un breve incubo sul centrale di Flushing Meadows perché adesso davanti a lei c’è La storia del torneo, quella per cui tutti sono andati a New York, quella che ha permesso per la prima volta nella storia del tennis di avere più prenotazioni per la finale femminile che per quella maschile.

Roberta vinci us open
Il miglior rovescio in back della WTA è Made in Italy

È la storia di un Grande Slam che più annunciato non si può, con le ipotetiche avversarie che sono più preoccupate di scansare un Tir che fare partita pari. La fragilità del gioco di Roberta potrebbe essere devastata dalla brutale potenza di Serena, che non avrà tanta voglia di concedere anche il minimo spazio, ora che la missione sembra finalmente sul punto di essere completata. È un’attesa diversa, si sa di non poter vincere, si teme di essere travolti, di fare brutta figura, di replicare l’incubo Zvereva – una delle pagine più sconcertanti della carriera di Steffi Graf – di maledire il momento in cui si è trasformato il match point del turno precedente, di rimpiangere che il tiro di Pinilla non sia terminato in rete invece che sulla traversa. Eppure non è questa la malinconia a cui accennavamo, non è questo il prossimo fallimento. Roberta Vinci e Serena Williams si affronteranno al calare delle prime luci della sera. Per vincere una partita, per passare alla storia, per vivere un momento che è già passato. Paolo Rossi racconta nella sua biografia che il momento più triste che ricorda fu quello con la coppa in mano e le bandiere che si agitavano tenute da mani felici. Perché quel momento lì non sarebbe più tornato. A Flavia Pennetta e Roberta Vinci non possiamo fare che l’augurio più beffardo: che il loro momento più triste possa essere il prossimo.

Flavia Pennetta Roberta Vinci US Open 2015


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