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L'ultimo c'mon

Lleyton Hewitt ha chiuso la carriera all’Australian Open, casa sua, lottando fino all’ultimo quindici.

Lleyton Hewitt ha chiuso la carriera all’Australian Open, casa sua, lottando fino all’ultimo quindici.

Quando l’ultimo rovescio è finito in corridoio e Lleyton Hewitt ha concluso la sua carriera in una calda serata di Melbourne, nessuno dei 15.000 della Rod Laver Arena si è rammaricato più di tanto. Di fronte all’australiano, ormai numero 300 del mondo e tagliato fuori dal tennis che conta da almeno un lustro, c’era un tennista molto più forte e preparato fisicamente, David Ferrer, e nessuno pensava che Hewitt avrebbe avuto qualche possibilità.

Il suo, comunque, lo ha fatto ancora una volta: il tabellone, benigno, gli aveva assegnato una wild-card per il primo turno e così Hewitt ha potuto salutare il suo pubblico con almeno una vittoria nel 2016, chiudendo la carriera contro un tennista troppo superiore a lui. È finita in tre set, anche se il magnanimo Jim Courier ha detto che quei tre set sono sembrati cinque per l’intensità con cui Lleyton si è battuto per l’ultima, ennesima volta – come vuole la narrazione hewittiana. Quando sono andati ad abbracciarsi a rete, Ferrer ha fatto una cosa inusuale per il mondo ancora un po’ snob del tennis: ha chiesto a Hewitt di scambiarsi le magliette. Del resto se c’è un tennista a cui lo spagnolo si è ispirato per costruirsi una carriera di tutto rispetto, quello sembra essere proprio Hewitt. Dedizione, sudore, coraggio, lotta: i cliché che riempiono le cronache dei match di Ferrer non sono mai mancati in quelle che raccontavano le vittorie (e le sconfitte) di Lleyton Hewitt, il quale ha concluso oggi una carriera durata oltre vent’anni, ma che è stata vittoriosa solo nella primissima parte per poi diventare la sfortunata storia di un tennista funestato dagli infortuni (ma non solo). Una carriera? Forse quattro.

“Di quale buco stai parlando?”

Poco prima di terminare la sua di carriera, in un quarto turno degli US Open, ad Andy Roddick chiesero se si ritenesse più fortunato per aver approfittato del buco creatosi tra l’era Pete Sampras e Roger Federer o più sfortunato per essersi trovato in mezzo a due dei più grandi tennisti di sempre. Roddick, come al solito con la risposta pronta, ribatté così: «Quale buco? Sampras ha vinto l’ultimo Slam nel 2002, Federer il primo l’ha vinto nel 2003, quindi di quale buco stai parlando?». È comprensibile che un tennista ormai alla fine della carriera prenda con poca simpatia l’ipotesi che lui e altri abbiano approfittato di un momentaneo periodo di scarsa competitività, però è anche vero che agli inizi degli anni 2000 ci furono campioni Slam dimenticabili come Thomas Johansson e Albert Costa.

Eppure allora si parlava di novelle vague, si indicava un mazzetto di tennisti che potevano ripetere le gesta del plurivincitore slam, Sampras, e dell’uomo che dopo Laver era riuscito a portare a casa tutte e quattro le prove dello slam, anche se in anni diversi, Agassi. A guardarli oggi sembrano errori, ma allora Ferrero vinceva Roma giovanissimo, Safin aveva letteralmente strapazzato Sampras a casa sua, Coria era vicinissimo ai primi 10 ad appena 19 anni, Roddick ai primi 20 e ne aveva 18. Ma soprattutto questi ragazzi avevano una cosa in comune: erano degli attaccanti. Non certo come Sampras ovviamente, non nel senso classico, niente serve and volley, ma neanche stare quattro metri dietro la linea di fondo campo, come a Parigi, e non solo, giocavano in tanti.

Il più forte di tutti era Lleyton Hewitt, che vinse due Slam, è stato il numero 1 più giovane del mondo del tennis e oltre a due Coppe Davis e a due Indian Wells ha vinto anche due volte la Tennis Masters Cup, quella che oggi chiamiamo ATP World Tour Finals ed è il torneo più prestigioso dopo gli Slam. L’australiano si era fatto conoscere nel 1998, quando gli organizzatori di Adelaide gli avevano dato una wild-card e lui li aveva ringraziati vincendo il torneo. «Vedo questo ragazzino biondo che sembra un surfista e che nessuno conosceva» disse Vincent Spadea, suo avversario nei quarti. «Era numero 500 del mondo o giù di lì. Tutti si domandavano perché gli avessero dato una wild-card, dato che la settimana prima aveva perso in un torneo minore contro non so nemmeno chi. Quando me lo trovai davanti pensai: “Sono in semifinale”. Dopo aver perso, il giorno dopo, incontrai Brad Gilbert, il coach di Agassi. Mi ignorò completamente e si rivolse a mio padre, dicendogli: “Tuo figlio ha perso ieri. André ti mostrerà come si tratta quel ragazzino”. Il giorno dopo Hewitt vinse 7-6 7-6». Ma già l’anno prima Hewitt si era fatto notare: a soli 16 anni aveva passato le qualificazioni agli Australian Open ed era diventato il più giovane tennista di sempre a partecipare al tabellone principale del torneo passando per le qualificazioni. «Se rivedo il mio match con Bruguera al primo turno, quasi non mi riconosco. Sembra che sia passato un secolo. Mi stava tutto largo, avevo quindici anni e ne dimostravo dieci. È un po’ imbarazzante». Vent’anni dopo e sessanta titoli dopo, Hewitt ha deciso che al tennis aveva dato tutto quello che poteva dare. Com’è possibile che un tennista che a vent’anni regolava in tre set Pete Sampras a New York, il tennista più giovane a salire alla prima posizione del ranking, nonché uno dei più completi baseliner dai tempi di Agassi non abbia più vinto niente di rilevante dal 2002 in poi? La risposta è fin troppo facile: Roger Federer. Fu lui a chiudere la prima carriera di Lleyton Hewitt, anche se le premesse sembravano diverse.

La bestia nera

Prima di vincere Wimbledon nel 2003, il primo di diciassette titoli dello Slam, Federer aveva la fama di un perdente di talento. Certo, poteva già contare un Master Series in bacheca e soprattutto, nel 2001, era entrato nel ristretto club dei tennisti capaci di battere Pete Sampras a Wimbledon. Ma nei tornei del Grande Slam, quelli che contano davvero, non aveva ancora giocato una semifinale. Nel 2002, a Wimbledon, un anno dopo l’exploit contro Sampras, si fece eliminare al primo turno da Mario Ancic. E gli head-to-head contro i tennisti che più contavano allora erano indicativi del gap che separava Federer dai migliori: 2-6 con Hewitt, 0-3 con Nalbandian, 0-3 con Agassi. Hewitt, in particolare, sembrava la vera bestia nera dello svizzero. Federer era una copia sbiadita di Sampras, un tennista dal gioco anacronistico e improduttivo; Hewitt era il rappresentante più feroce e agguerrito della nuova generazione di baseliner. Sampras contro Agassi, si potrebbe dire, con la differenza che il nuovo Sampras era nettamente inferiore al nuovo Agassi. Hewitt era colui che era riuscito a vincere Wimbledon giocando da fondo campo, esattamente 10 anni dopo il pioniere Agassi; Federer, al massimo, spaccava racchette, frustrato da un gioco che non riusciva a padroneggiare totalmente.

Poi arriva il 2003: Hewitt diventa il primo campione in carica a perdere al primo turno di Wimbledon nell’Era Open, Federer va in finale e da favorito rifila un secco 3-0 a Mark Philippoussis. Le gerarchie però, non sono ancora definite. Il numero 1 a fine anno è Andy Roddick, campione agli US Open successivi, nei quali Federer non supera il quarto turno. Hewitt chiude l’anno addirittura al numero 17 ma vince una Coppa Davis da protagonista. Una Coppa Davis in cui batte anche Roger Federer in semifinale, nel match che più di ogni altro ha segnato non solo la loro rivalità ma anche le rispettive carriere.

La peggior sconfitta

Pur avendo subìto sconfitte dolorosissime nell’arco di un decennio contro Rafael Nadal e Novak Djokovic, Federer ha sempre ribadito che la sconfitta peggiore della sua carriera fu contro Hewitt. Era fine settembre, Hewitt e Federer erano i grandi delusi degli US Open appena terminati e la Coppa Davis poteva servire a lenire alcune ferite. Lo svizzero aveva perso agli ottavi del torneo newyorkese per la quinta volta su cinque contro David Nalbandian, un argentino talentuosissimo dal sontuoso rovescio a due mani; Hewitt, che aveva vinto gli US Open nel 2001, aveva invece perso ai quarti con Juan Carlos Ferrero. I due si trovarono di fronte a Melbourne, nella semifinale della Coppa Davis, con in palio qualcosa di più della finale. L’Australia voleva tornare a giocarsi il titolo dopo le due sconfitte consecutive in finale nel 2000 e nel 2001; la Svizzera, che non aveva mai vinto il titolo, voleva giocare la seconda finale della sua storia e si affidava principalmente al suo nuovo campione. Il doppio del sabato sancì il 2-1 a favore degli aussies e così, il giorno successivo, toccava a Federer cercare il pareggio nella sfida tra numeri 1. Pur avendo perso sei degli otto incontri giocati, lo svizzero, che portava ancora i capelli raccolti a cipolla, partì decisamente meglio e si trovò a servire per il match sul 7-5 6-2 5-3. Ma a due punti dalla vittoria, l’undicesima consecutiva in Davis, qualcosa si inceppò e Federer finì per perdere. La sentenza arrivò con un 6-1 al quinto e Federer, stremato fisicamente, si presentò in conferenza stampa solo due ore dopo l’ultimo punto. Nel viaggio di ritorno si svegliò più volte in preda agli incubi. Quella sconfitta gli aveva fatto capire che non era ancora pronto per diventare il numero 1. Lleyton Hewitt, sùbito dopo il match, disse che quella vittoria «batteva nettamente le vittorie agli US Open e a Wimbledon». Certo, veniva da un anno travagliato in cui aveva perso il numero 1 del mondo e non aveva vinto nemmeno uno Slam. La Coppa Davis, che avrebbe vinto nella finale contro la Spagna, non è certo un torneo prestigioso come i due Slam che aveva vinto, ma molti pensarono che quella vittoria potesse fargli da trampolino di lancio per l’anno successivo. Ma non andò proprio così: Hewitt non lo poteva sapere, naturalmente, ma quella vittoria in Coppa Davis rappresenterà lo zenith della sua prima carriera e della sua intera storia sportiva.

Hewitt rimonterà due set di svantaggio, per chiudere 6-1 al quinto portando l’Australia in finale di Coppa Davis.

Il bivio

La settima vittoria in nove incontri in favore di Hewitt fu l’ultima per lungo tempo. Federer, nel 2004, incontrerà Hewitt in tutti i tornei più importanti e lo batterà sempre, alcune volte con punteggi clamorosi. Dopo la débâcle di Melbourne, lo svizzero aveva capito che il talento di cui disponeva non sarebbe bastato a soddisfare la sua ambizione. Due anni fa Federer ha dichiarato: «Penso che quella sconfitta mi abbia fatto capire che potevo giocare un grande tennis non solo per un set o due, ma per almeno tre o di più contro questi avversari. Hewitt era uno dei giocatori più difficili da battere al meglio dei cinque set, sia mentalmente sia fisicamente. Per me essere arrivato a lottarmela fino a quel punto ha significato che potevo lottare anche sotto il piano fisico e mentale a quei livelli».

Era crollato nell’ultimo set, vero, ma Federer aveva ormai capito quale era la tessera mancante del puzzle, quella che gli aveva causato tanta frustrazione nei primi anni da professionista: bisognava fare il salto di qualità nella parte atletica e a quel punto né Hewitt né nessun altro sarebbe più stato un problema.

Lo svizzero lavorò sodo nell’off-season e a gennaio 2004, ancora a Melbourne, si presentò in condizioni smaglianti. Agli ottavi degli Australian Open si trovò di fronte proprio Hewitt e lo sconfisse in quattro set, in rimonta; ai quarti concesse un set a Nalbandian, battendolo per la seconda volta in carriera; in semifinale lasciò nove game a Ferrero; in finale passeggiò su Marat Safin, al ritorno sui grandi palcoscenici dopo un infortunio. Quel torneo, e quel match negli ottavi di finale, fu il punto di svolta delle carriere di Federer e Hewitt. Dopo aver perso il primo set, Federer dominò secondo e terzo set; poi nel quarto ebbe un match point sul servizio di Hewitt, lo fallì, e quando andò a servire per il match concesse una palla break che poteva dare una svolta alla partita in un modo molto simile a quanto era successo qualche mese prima. Ma Federer giocò alla grande quei punti e chiuse 6-4. A Hewitt non rimase che ammettere la superiorità del suo avversario: «Ha giocato meglio i punti più importanti, perciò ha meritato la vittoria».

Qualche mese dopo gli Australian Open , agli US Open, Federer e Hewitt si trovarono di fronte nella finale del torneo newyorkese. Lleyton arrivava in finale senza aver perso un set, mentre Federer aveva rischiato grosso con Agassi nei quarti. Ma il primo set perso da Hewitt fece capire che con Federer non ci sarebbe stata storia: Hewitt vinse appena cinque punti e non conquistò nemmeno un game. Finì con un altro bagel (nel terzo set) e Hewitt, nemmeno troppo sconsolato, disse: «Roger gioca un altro sport. Non penso che nessuno possa batterlo attualmente. Ci vorrebbe Sampras». Peccato che Pete si fosse già ritirato da due anni. Federer finì per vincere tre Slam su quattro (il primo dai tempi di Wilander), undici tornei e chiuse il 2004 al numero 1 del mondo; Hewitt, invece, finì al numero tre del mondo e con un record curioso che spiega molto bene la piega che prenderà la sua carriera: fu il primo tennista dell’Era Open a perdere in tutti e quattro i tornei dello Slam dal futuro vincitore.

La maledizione di Pirro

È paradossale, ma una delle vittorie più importanti della carriera di Hewitt fu anche il motivo principale che lo portò a finire ingoiato dalla famelica voglia di vittoria di Federer. Hewitt, dal 2000 al 2002, era sempre stato superiore al suo rivale: più veloce, più preciso, più concentrato, più campione. Erano suoi i record di precocità, suoi i primi Slam, sue le vittorie più importanti. Federer era sempre dovuto stare all’ombra di Hewitt, incapace di trovare una soluzione a quel tennis inscalfibile. Lleyton era una versione ancora più veloce e potente di André Agassi, il primo prototipo del tennista che vinceva gli scambi quasi sempre da fondo. Non aveva nulla in comune con la grande scuola australiana, fatta di grandi battitori ed eccellenti volleatori. Non era per nulla simile ai Cash, ai Rafter, figuriamoci ai Laver. Era, piuttosto, il prodotto perfetto del suo tempo. Ma alla transizione tra la scuola degli anni ‘90 – di cui Sampras fu l’ultimo esponente – e quella del tennis attuale – in cui è Djokovic a fare da punto di riferimento, con Nadal nel ruolo di ispiratore – mancava l’anello di congiunzione. E quell’anello di congiunzione non fu Lleyton Hewitt, bensì Roger Federer. Quel tennis preciso, potente e veloce poteva fare ben poco contro la frustrata liquida di Federer, il cui tennis era così completo e vario da permettergli di trovare ogni volta la soluzione giusta per disinnescare gli sforzi dell’australiano. La vittoria di Melbourne, in quel settembre del 2003, servì a Hewitt per regalare una Coppa Davis al suo Paese, ma soprattutto servì a Federer per capire i suoi limiti e prendere le contromisure adatte.

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Sull’ottovolante

Ci sono voluti quasi sette anni – e un torneo di minore importanza, il torneo tedesco di Halle – perché Hewitt tornasse a battere Federer. In mezzo a quelle due sconfitte Roger ha vinto quindici partite consecutive e soprattutto altri quindici Slam. Hewitt, invece, ha giocato due finali e le ha perse entrambe. Ma la seconda fu l’apice della seconda carriera di Lleyton Hewitt. Dopo l’avvento di Federer, Hewitt precipitò in classifica, anche perché dopo gli US Open 2003 decise di non giocare nessun torneo e di concentrarsi solo sulla Coppa Davis e sulla parte atletica (nell’off season aumentò di sette chili): il 5 aprile del 2004 Hewitt era al ventesimo posto. Ma non si diede per vinto, frase che ritornerà con implacabile costanza nel corso della terza carriera, e risalirà lentamente la classifica fino ad arrivare agli Australian Open 2005 da testa di serie numero tre. Quell’edizione rimarrà storica per via della semifinale tra Federer e Safin, ma Hewitt fece delle cose straordinarie, a cominciare dal quarto di finale vinto 10-8 su David Nabaldian. In semifinale Lleyton batterà Andy Roddick come ai bei tempi, cioè stroncandolo alla distanza. Ma in quell’edizione, che vincerà Safin, Hewitt batté negli ottavi un giovane spagnolo, recuperando da sue set a uno. Dopo che Roger Federer ha precluso a lui e a tutti gli altri, la possibilità di competere per il primo posto, Hewitt raggiunge la posizione numero due del ranking, diventa il primo tra gli umani. Ci resterà per sette mesi; nel frattempo il ragazzino vince il Roland Garros, mentre Lleyton comincia la sua lenta discesa. Sarà Rafael Nadal a spiegare al mondo del tennis che il numero 2, la nemesi, è arrivato. A Lleyton non resta che cominciare la sua terza carriera. Ma è forse quella che costruisce la sua grandezza.

Il miglior attore non protagonista?

È vero. Dal 2005 in poi l’australiano si è dovuto accontentare di qualche malinconica vittoria e di una manciata di titoli minori mentre Federer vinceva tutto quello che si poteva vincere. E se lo svizzero falliva, ecco il giovane maiorchino appena ventenne prendersi quel che rimaneva. La rivalità tra Federer e Hewitt venne così velocemente rimpiazzata da quella tra Federer e Nadal, uno scontro tra due universi così opposti da far impallidire lo scarto che separava lo svizzero dall’australiano. Nel 2008, l’anno in cui Federer perse il numero 1 del ranking a favore di Nadal, Hewitt chiuse l’anno in anticipo per un infortunio all’anca che tornerà a farlo soffrire negli anni a venire. Per la prima volta, Lleyton non vincerà nemmeno un titolo in tutta la stagione, lui che nel 1998 era diventato il più giovane di sempre a vincere un torneo. Il 2008 sarà solo il prologo del tramonto di un campione sbocciato troppo presto. I problemi fisici cominceranno a farlo entrare e uscire dal circuito, con lunghi periodi di stop a cui seguiranno lente risalite e fragorose ricadute. Hewitt si ferma dopo le Olimpiadi del 2008, gioca un 2009 discreto e torna in orbita top-20, ma tra Wimbledon 2010 e Indian Wells 2011 vince appena sei partite su quattordici ed è costretto a fermarsi di nuovo. Scende oltre la duecentesima posizione, poi nel 2012 sfrutta al meglio una wild-card agli Australian Open e riesce a vincere un set negli ottavi contro Novak Djokovic, futuro campione del torneo. Dopo il match con il numero 1 del mondo disse: «Due mesi prima del torneo, non sapevo nemmeno se sarei stato capace di scendere in campo. Considerato dov’ero, direi che è un ottimo risultato». In sostanza, un tennista che a vent’anni era già numero 1 del mondo, è costretto a trent’anni ad accontentarsi di qualche onorevole sconfitta.

La quarta carriera

L’ultima parte è quella con meno vittorie e meno soddisfazioni, ma che ha contribuito ad accrescere la leggenda dell’uomo che fu primo e non lo fu più, che fu secondo e non lo fu più. Dal 2009 ad oggi Hewitt ha giocato un solo quarto di finale negli Slam – a Wimbledon 2009 – e ha vinto appena quattro titoli in tornei di minore importanza. Ma mentre le altre stelle brillavano sempre più intensamente, togliendogli le attenzioni di chi lo considerava il nuovo dominatore del tennis dopo l’abbandono di Sampras, quella di Hewitt non è rimasta spenta. Questi ultimi sette anni ci hanno regalato la lezione di un campione che non si è mai arreso all’evidenza dei fatti. C’è dell’inevitabile retorica nel celebrare la testardaggine di questo tennista, ma c’è anche del romanticismo in tutte quelle sconfitte che Hewitt è stato costretto a mandare giù. Ogni suo “c’mon” urlato in faccia all’avversario, ogni sua esultanza di memoria vichinga così sfrontata – il cosiddetto Vitch, introdotto da un tennista svedese, Niclas Kroon e poi reso celebre da Mats Wilander -, ogni partita finita all’alba gli ha fatto guadagnare il rispetto del circuito, che lo ha salutato nella maniera con cui si salutano le leggende. E di leggendario, forse, Hewitt ha fatto troppo poco, ma il rispetto che questo tennista si è guadagnato nel corso degli anni è frutto anche di tutte quelle sconfitte contro tennisti di seconda fascia, in quella volontà di potenza che non si è esaurita nemmeno quando era evidente a tutti che Lleyton Hewitt, col tennis, ormai c’entrava poco.

C’mon compilation

Ma anche se ha vinto poco rispetto a quello che ci si aspettava, non c’è dubbio che Hewitt sia stato un rivoluzionario. Ha cambiato il modo di pensare il tennis, rendendo normale quello che vediamo adesso: un gioco basato sull’attacco dalla linea di fondo, che non considera il gioco a rete un’opzione valida. Lo ha riconosciuto Federer, e lo ha detto lui stesso nella conferenza stampa a seguito della sconfitta con Ferrer: «Penso che i miei avversari abbiano cominciato a capire che si poteva vincere anche giocando da fondo, quando hanno visto che io ci riuscivo su tutte le superfici. Prima non era normale, a parte un’eccezione come Agassi. Credo che questo sia stato il mio principale contributo al tennis».

Che cosa ricorderemo di Hewitt, ora che si è ritirato? Le abbacinanti vittorie della gioventù o le sofferte sconfitte nella vecchiaia? Ricorderemo i due 6-1 nel secondo e terzo set contro Sampras agli US Open del 2001 o quella sconfitta con match point a favore contro Tomic, sempre a New York, ma quattordici anni dopo? Ricorderemo il suo match con Baghdatis che tenne sveglia tutta l’Australia fino alle 4 del mattino o quest’ultimo match con Ferrer, finito in prima serata e senza nemmeno un set vinto? Hewitt, a ben pensarci, ci ha insegnato la multidimensionalità della parola campione: la sua lunga storia nel circuito, durata quasi vent’anni è fatta di molte aspettative e altrettante delusioni, è fatta soprattutto di un orgoglio che non si è spento nemmeno nell’ultimo giorno, quando nessuno si aspettava che vincesse, ma quando nessuno nemmeno pensava che avrebbe perso senza combattere. Questa certezza granitica, anche nel momento dell’addio, è il segno più tangibile che Lleyton Hewitt è riuscito ad imprimere nella storia del suo sport. Non è stato un campione Lleyton Hewitt, aveva ragione quel grande giornalista. È stato di più.

Questo pezzo è stato pubblicato anche su Ultimo Uomo.

Australian Open 2016 Lleyton Hewitt


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