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Ragione e sentimento

Chissà cosa passava per la testa di Gaël Monfils durante i cambi campo, quando l’unico sollievo alla fatica era un mezzo litro d’acqua che si versava in testa. E chissà cosa passava per la testa di Kei Nishikori nel decimo game del terzo set, quando con tre errori si è trovato ad un punto dalla sconfitta, per poi annullare quattro dei cinque match point affrontati nel corso della partita. Non poteva esserci altro che un tie-break al terzo set come epilogo logico di un match al di fuori di ogni schema razionale. È la normalità, quando Monfils gioca. Lo sarebbe molto meno quando c’è in campo Nishikori, almeno in teoria.

Non potrebbero esserci due giocatori più diversi di Nishikori e Monfils. Preciso e metodico il primo; istrionico e potente il secondo. Non è solo una questione di fisico, anche perché Monfils non ha mai voluto sfruttare appieno la potenza dei suoi colpi, preferendo remare a fondo campo per buona parte della sua carriera. Nishikori, invece, non ha potuto scegliere: ogni passo in avanti della sua carriera è stato frutto di una meditata preparazione che lo ha portato ad affinare sempre più i suoi colpi da fondocampo, specie quello più insicuro, il dritto.

Monfils, che ha la fortuna di avere un fisico come pochi altri nel circuito, ha probabilmente sprecato gran parte della sua fortuna. Eppure, ha giocato una semifinale Slam, è stato nei primi dieci, ha battuto almeno una volta Roger Federer e Rafael Nadal. Il dato però che meglio riassume la sua carriera è il bilancio delle finali che ha giocato: 5 vittorie e 18 sconfitte, quasi tutte in straight sets. La statuaria solidità del suo fisico è accompagnata da una fragilità emotiva che com’è ovvio che sia si palesa quando le partite contano di più. La cosa più notevole di questo tennista così illogico, però, è che in nessun frangente, nemmeno in quelli più negativi, Monfils ha mai rinunciato alla sua essenza più pura, quella dell’intrattenitore. E ieri, mentre lottava contro Kei Nishikori in un durissimo terzo set, il pubblico di Miami non ha potuto evitare di schierarsi quasi completamente con lui.

Nishikori è l’esatto opposto di Monfils, almeno nelle intenzioni. Ogni colpo giocato dal giapponese è ponderato per costruire la ragnatela in cui intrappolare le sue vittime. È con questo tennis così logico e geometrico che Kei è arrivato in finale Slam quando nessuno se l’aspettava, ed è grazie a questa solidità che questo tennista è diventato un membro fisso della top-10. Eppure, qualcosa si è incrinato da qualche tempo. Nishikori non vince più coi più forti e perde qualche volta di troppo contro tennisti inferiori a lui. Il rumore dei treni passati dopo gli US Open 2014 sono ormai la colonna sonora dei tanti rimpianti di un tennista che non ha ancora compiuto 27 anni, ma che sembra avviato a lottare per traguardi da seconda linea.

Per Kei Nishikori è la settima semifinale in un Masters 1000.
Per Kei Nishikori è la settima semifinale in un Masters 1000.

Se Monfils è sentimento ed istinto, Nishikori è ragione e logicità. Ma nel match che questi due hanno giocato ieri le due diverse dimensioni si sono fuse in una partita dai molti volti. I primi due set sono andati lungo binari piuttosto usuali: nel primo Monfils ha fatto prevalere la profondità e la pesantezza dei suoi colpi, nel secondo Nishikori ha costretto il suo avversario a pensare e lo ha mandato fuori giri. Nel terzo, come voleva il copione, Nishikori è scappato, facendo valere maggiormente la sua resistenza al caldo. Mentre Monfils arrancava tra un punto e l’altro, cotto dal sole della Florida, Nishikori sembrava intoccabile, perfetto come quel volto ritoccato su Photoshop che ti accoglie quando scarichi la Key’s app, l’app che raccoglie risultati e news sul tennista giapponese.

Ma sul 4-2 30-30 succede che Monfils fa il Monfils e si inventa un prodigioso dritto lungolinea che scongiura la palla break. Monfils urla tutto il suo furore in faccia a Nishikori, che come al solito non si scompone. Nishikori non ha un grunt, non esulta mai platealmente, parla pochissimo. Ma la sua è una poker face: dietro quell’irreprensibilità c’è una fragilità che ieri ha assomigliato molto a quella che ha spesso condannato Monfils nelle finali. Il break del 4-4 e il successivo game sono un disastro che ultimamente abbiamo visto spesso: Nishikori perde completamente la misura del dritto e nonostante il suo avversario sembri esausto, non riesce nemmeno ad impelagarlo in scambi lunghi che ne massacrerebbero la resistenza.

I tre errori che stavano per far uscire Nishikori dal torneo sono i sintomi più evidenti di questa fragilità, ma il giapponese riesce a sfruttare le debolezze di Monfils, mettendoci un po’ di coraggio. Le prestazioni dei due tennisti, da quel momento, si livellano. Gli errori (tanti) e le prodezze (poche, ma abbacinanti) si sgranano uno dopo l’altro in un finale di match che ha per sottofondo le urla entusiaste di un pubblico che forse non si aspettava tanto spettacolo.

A fine partita, gli errori non forzati supereranno di gran lunga i vincenti, eppure il terzo set giocato da Monfils e Nishikori è stato uno dei più spettacolari di questo pallido 2016. Finisce come deve finire, perché Monfils non mente e fatica a tenere in campo la palla. Se non lo salvano gli ace, Nishikori lo sovrasta e lo costringe a correre sempre di più. Non ci sono time warning, giustamente, anche se è sempre e solo un tennista a concedersi pause più lunghe per rifiatare. Il riassunto del dramma visto in campo nel finale è un pessimo dropshot di Nishikori seguito da un errore ancora più grossolano di Monfils, proprio quando il francese aveva appena recuperato il minibreak di svantaggio. Proprio quando il punteggio contava di più. Purtroppo per Monfils, non è affatto una novità.

ATP Miami 2016 Gael Monfils Kei Nishikori


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