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Tennis di periferia: la serie D2

La settimana è iniziata con il rimuginare sull’eliminazione dalla Coppa Gabbiani, arrivata per un doppio mal giocato. Sono passati un paio di giorni ma il torneo già mi manca. Quella sensazione di giocare non tanto per la tua squadra, il tennis è il solipsismo per eccellenza, ma di dimostrare cosa sei capace di fare quando c’è la pressione da gestire, quando il punto è più “pesante” rispetto a quello dell’allenamento, quando la gente che ti guarda dagli spalti sta prendendo nota nell’immaginifico taccuino del “quanto vale veramente Claudio”, cosa che si vede solo nei match di torneo.

Mi verrebbe voglia di iscrivermi a un torneo open, ma data la bassa classifica dovrei giocare almeno quattro  o cinque partite prima di trovare un avversario buono (al mio rientro, cinque anni fa, persi alla settima partita del primo torneo), e io non ho cinque giorni di fila da dedicare al tennis, per di più durante la settimana. A metà mattinata del martedì, però, il mio telefono lampeggia. È un SMS del responsabile del circolo che mi precetta per la serie D2 della domenica seguente. È fatta: c’è un altro torneo, e questa volta il livello è pure superiore.

La serie D2 è un campionato a squadre articolato con la formula dei tre singolari e un doppio. Il livello della competizione a Roma è abbastanza alto, con i giocatori di terza categoria pronti a sacrificare la domenica intera per lo svolgimento delle gare del girone prima, e del tabellone a eliminazione diretta poi. A patto di qualificarsi.

Sgambetto a calcetto e calciotto in settimana per poi sentirmi stanco al venerdì, quando gioco un paio di set inutili con Marco, uno contro il quale è impossibile scambiare per più di cinque colpi di fila, e poi gioco un paio d’ore contro Maurizio al sabato. La partita mi prepara a puntino per il giorno dopo. Vinco il primo set per 6/3, cedo improvvisamente nel secondo, che perdo 6-2 per via della mia pausa mentale dovuta alla voglia di uscire dai soliti schemi della partita, e poi mi riaccendo sul 2 a 2 del terzo set, quando decido che avrei vinto quella partita a qualunque costo, spingendo diritti a sventaglio come il Rafa dei tempi buoni. Partita vinta, dritto e rovescio in palla, e tutto pronto per la D2 del giorno dopo anche se le previsioni portano pioggia.

Al mattino alle 9 sono già al circolo. La regola dell’atleta prevederebbe l’alzarsi tre ore prima dell’attività fisica, io me ne faccio bastare due: alle 7 sono in piedi e mangio pane burro e marmellata con latte e caffè abbondanti. Il tempo, stranamente, è buono. Ci sono le nuvole, però si può giocare. I campi sono quasi pronti, con gli addetti che aggiungono un po’ di sabbia per renderli praticabili al più presto. Il comandante in campo del circolo, oggi, è il fratello più giovane dei due che governano i soci del tennis. Si chiama Claudio, ha circa 50 anni, un aplomb invidiabile che si nota fin dalla sua camminata, lenta e composta, come se fosse sotto la luce dei riflettori. Ha giocato anche la prima categoria a squadre in passato, e ha una erre moscia che nobilita ancora di più le sue gesta tennistiche.

Il nostro capitano tarda e allora io ed Edoardo ci mettiamo a fare la formazione. Oltre a noi due, in squadra c’è anche Enzo, un maestro del circolo che è già stato seconda categoria, giovane e forte. Lui si è appena alzato quindi decidiamo che io ed Edoardo scenderemo in campo per primi. Siamo entrambi classificati 4.3, e quindi scelgo di schierarmi come secondo, visto che ho voglia di fare una partita con uno forte, un terza categoria. Io ed Edoardo andiamo in segreteria, Claudio rilascia uno statement: “Allova, vi do due campi così vediamo un po’ di sbvigavci con questa sevie D2”. Lo dice quasi disgustato dal basso livello del nostro tennis, con una superiorità che risponde alla domanda immaginaria “ma cosa fate in campo con quelle vacchette da tennis?”, una frase che ha sentito rivolgere a degli improbabili tennisti in un circolo sul Tevere di Roma nord molti anni da parte di un ex campione. Noi due annuiamo, ringraziamo con deferenza e quando stiamo per voltargli le spalle ci fa: “Oh mi vaccomando: se pevdete il primo set sciogliete eh!”. “Certamente”, gli diciamo noi dopo il bel incoraggiamento a sbrigarci.

Il mio avversario è un pischello di 17 anni, biondino e alto, Francesco mi pare si chiami. Quando si presenta mi dà del lei, io gli imbruttisco subito: “Dammi del tu immediatamente, ti prego”. Ridiamo tutti. La mia compagna, Clotilde, non contempla minimamente il fatto che in questo sport si possa trovare di fronte in torneo gente che potrebbe essere mio figlio. L’avversario di Edoardo è ancora più giovane, un cinese o un giapponese, orientale di sicuro, che avrà 15 o 16 anni al massimo, subito soprannominato Nishikori da tutti. Quando iniziamo a giocare sugli spalti ci sono i ragazzi della serie B che inizieranno a giocare più tardi il loro match di campionato. Io mi scaldo bene, il dritto è in palla e affretto il palleggio di riscaldamento perché ho voglia di fare partita. Tengo subito il servizio, lui fa altrettanto, e io di nuovo per andare sul 2 a 1 per me. Lui non batte forte, ma io devo ancora quadrare per bene i miei colpi. Sul 2 a 2 salvo una palla break con una gran prima di servizio e poi salgo 3 a 2.

Gioco molto meglio e con una velocità di palla maggiore rispetto alla Coppa Gabbiani, merito anche dell’avversario, che non disdegna di provare qualche chiusura da fondo campo. Facciamo qualche bello scambio, con io che conduco le danze cercando di indirizzare la palla molto carica sul suo rovescio per poi “entrare” dall’altra parte, chiudere cioè sul lato del suo diritto. Io lascio aperto tutta la zona destra, giocando sempre dritti anomali, tanto ho capito che non sa tirare il rovescio in lungolinea sui miei colpi carichi di topspin.

Torna a battere lui sul 3 a 2 ma io alzo il ritmo: faccio il break e tiro dritto fino al 6 a 2 per me, in neanche mezz’ora. Il suo capitano gli si avvicina e gli dà qualche consiglio. Torniamo in campo e io ho un pensiero fisso: vincere il primo game. Servo io e lui subito vince il game. Recupero subito e salgo 2 a 1, deciso a chiudere rapidamente. Inizia a piovere, forte.

Usciamo rapidamente sul campo e ci ripariamo su una delle querce secolari del circolo. La pioggia sembra passeggera, e sotto il riparo dell’albero formiamo dei capannelli per squadra. Edoardo ha vinto anche lui il primo set, però soffrendo la resistenza del “cinese” che corre tantissimo e rimette praticamente tutto. I ragazzi della B chiedono quanto stiamo, interessati. Chiacchieriamo un po’ ci distendiamo. Passa Claudio, e gli faccio «Io ed Edoardo abbiamo vinto entrambi i primi, forse dovrebbero sciogliere gli avversari a questo punto”. Sorride. Guardiamo il vento trascinare via le nuvole per portare nuovamente il sole: tempo un quarto d’ora e si torna in campo.

Io voglio chiudere la partita al mattino per il solito motivo, la domenica da trascorrere con la mia famiglia. In settimana, mio figlio, mi ha detto lamentandosi che “io sto sempre al tennis”. Lui il sabato sta con la madre alla Virgin, a fare attività psicomotoria mentre lei sgobba con la ketterbell, e la domenica sta in piscina con lei in vasca mentre io sono al circolo o in giro per i campionati a squadre. Non conta che poi io stia sempre con loro, lui ha la percezione che la madre è più presente di me. È effettivamente così, anche se non potrebbe essere altrimenti per chiunque pratichi questo sport. Soli in campo, più soli anche fuori. Dannato tennis.

Torno in campo  e ripetiamo il riscaldamento. Sta a lui servire e tiene la battuta rapidamente, io la perdo di nuovo e lui sale 3 a 2. Recupero di nuovo subito. Intanto, il canovaccio del match è cambiato. Lui non prende più rischi, tiene di più la palla in campo e lascia completamente l’iniziativa a me. Ogni tanto mi sorprende tirando qualche vincente, uno addirittura a velocità supersonica in lungolinea. Gli faccio i complimenti. Dal 3 a 3 in poi teniamo sempre il servizio. Il match è tale. Io riesco ad andare avanti sul 5 a 4, e provo l’assalto decisivo per chiudere 6-4. Lui tiene e mi inchioda sul 5 pari. Io vado a battere e non tremo: chiudo a zero, si cambia sul 6 a 5 per me.

Devo chiudere adesso, mi dico. Il primo quindici è mio, gioco in pressione e lui mette fuori un diritto. Mio anche il secondo, 0-30. Batte e io rispondo verso di lui, cercando il corpo così da non dargli angolo. La mia palla batte sul nastro e cade morta dalla sua parte: 0-40, tre match point con una grandissima botta di fortuna. Il primo va fuori, sparacchio un diritto senza molto senso. Ma sul secondo conduco lo scambio, lo faccio correre da una parte all’altra del campo e poi chiudo con un incrociato di dritto in contropiede, con lui che pensava tirassi a sventaglio. Stretta di mano e 1 a 0 per noi.

Una fase del doppio, vinto anche questo per 6-1 7-5
Una fase del doppio, vinto anche questo per 6-1 7-5

Guardo l’ora: 11 e 22. La lezione di mio fio figlio in piscina finisce fra 8 minuti. Butto tutto dentro la borsa e corro come un pazzo in direzione opposta alla segreteria, che oggi è l’ultima domenica del mese e si può entrare in piscina a guardare i propri pargoli sguazzare nell’acqua. Abbandono la borsa per terra, infilo le ciabatte e varco la doppia porta che mi fa entrare nel caldo insopportabile della piscina coperta. Ho ancora il completo da tennis, sono sudato e cerco subito con lo sguardo il piccolo. Sta li pronto a fare il tuffo, la fase finale della lezione. Mette le mani giunte in avanti, lunghe, infila la testa in mezzo e si tuffa in acqua. Invece di darsi la spinta con le gambe cade dritto come una pera, di pancia. Lo chiamo quando lo vedo sforzarsi con le braccia di tirarsi sul bordo per tornare in fila per un nuovo salto, sorride e urla “Papà”. Me lo guardo per una decina di minuti, prima che venga nella corsia a me più vicina e farmi vedere “come faccio il dorso”.

Edoardo mi chiama, mi aspettano in segreteria. Ancora devo dichiarare il risultato. Saluto tutti, rimetto le scarpe e vado. Incontro Alessandro, altro giocatore bravo della nostra squadra, un terza categoria, che mi chiede se voglio giocare il doppio. Me lo chiede «per rispetto», dice, non prima di avermi fatto i complimenti. Dico no, perché mi annoierei dopo un po’, perché con Edoardo giocheranno meglio ma soprattutto perché il programma della domenica, con Enzo che sta disponendo del suo avversario portandoci sul 3 a 0, prevede il giro in centro con mostra artistica con annessa cena in giro. «Vengo a vedervi, ma per un po’», dice.

Dopo la doccia mi posiziono a bordo campo faccia alle tribune, lontano dai tanti soci che seguono la serie B. Enzo sta concludendo vittoriosamente il suo match, Edoardo e Alessandro hanno iniziato con il piglio giusto il doppio. Il tempo regge, il vento sta salendo ma si può ancora giocare bene a tennis. I ragazzi della B stanno perdendo, quelli della D2 vincono, invece. Il piccolo di casa mi vede in lontananza appena uscito dalla piscina e mi corre incontro. Manca meno di un’ora all’una e un’altra domenica di tennis è finita. Finita bene. Starei a vedere ancora i miei compagni, a raccogliere i complimenti degli altri soci o a guardare la B, per imparare qualcosa. Ma la famiglia mi esige. Per la solitudine ho chiuso, per oggi.


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