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Tennis di periferia: l’eliminazione

C’è una parte di Roma totalmente sconosciuta a molti romani, generalmente quelli di Roma nord. Questi sono convinti di abitare nella vera Roma, quella dei monumenti e dei locali alla moda, e quando “sconfinano” in quadranti dove vanno solo se costretti, sempre all’interno del sacro Gra, si abbandonano a quelle battute che vorrebbero ostentare una presunta superiorità. È così che, quando abbiamo scoperto negli spogliatoi che avremmo giocato in un circolo nel quadrante di Roma ovest, nel nostro immaginario solo leggermente meglio di Roma sud, noi del circolo di Roma nord abbiamo fatto la faccia come se avessimo ricevuto la cartolina per andare a fare il militare a Cuneo.

In programma ci sono i quarti di finale della Coppa Gabbiani, che sta per finire dopo mesi di partite fra girone e tabellone. Giocheremo Edoardo e io, con il capitano Paolo come riserva. Alla viglia della gara penso che vinceremo questa coppa facilmente, perché sia io che Edoardo siamo quarta categoria falsi ed è praticamente impossibile che arrivi un quarta categoria a batterci. In settimana mi ero allenato bene, con il solito seconda categoria cui sono riuscito anche a “strappare” un set, complice la sua luna storta. Il calciotto del giovedì ha messo abbastanza benzina nelle mie gambe e il venerdì mi sono riposato in vista della partita: tutto perfettamente in ordine per l’ennesima vittoria fra i pallettari.

Il navigatore dice che ci vogliono 40 minuti per arrivare al circolo di sabato mattina. Scelgo di passare per il centro, percorrendo tutta la  tangenziale in direzione Pineta Sacchetti, scendendo giù per via della Pisana, dove l’agro romano ancora resiste e quindi i circoli tennis sono grandi e paciosi.  Mentre lascio il centro della città dirigendomi per queste strade larghe, coi palazzi bassi che si diradano per lasciare spazio a casette e ville, ricordo che da queste parti ci ero già stato diversi anni fa, per un match di serie C. Mi pare che persi, ma non ricordo bene. Quindi persi.

La strada che porta al circolo è in aperta campagna, con le siepi a bordo asfalto incolte, e ad un certo punto diventa privata perché ci sono tutte ville enormi con le palizzate a proteggerle. Mentre le supero a velocità limitata per via dei dossi sull’asfalto, immagino le piscine dietro queste cancellate alte, con i cani a fare la guardia e i pini curati a garantire la privatezza lungo tutto il perimetro.

Al circolo mi accoglie il giudice arbitro, un vecchio romano con il classico gilet portaoggetti indossato sulla camicia che viene dato in dotazione alla pensione, immagino.  Lo saluto e do un’occhiata ai campi. Tutto è come allora: il ristorante rialzato sui campi centrali, il bar, gli spogliatoi sotto terra con l’accesso da una scala a a chiocciola e le murature delle costruzioni tutte bianche, con le palme piantate qua e là e i palazzi di Roma centro sullo sfondo, lontani. Il rumore è zero e l’aria è quella del mare, che non dista poi tanto. La memoria mi torna: non giocai, feci panchina per un match di serie C.

Il ristorante con la veduta sui campi
Il ristorante con la veduta sui campi

Si gioca su un campo solo, perché le competizioni a squadre sono tante. Il capitano arriva e mi dà la brutta notizia: la figlia di Edoardo ha la febbre alta e quindi il papà non può lasciarla. Edoardo ci raggiungerà dopo, appena il medico avrà dato via libera. Sarà impiegabile solo per il doppio. Gioca il capitano, e scende in campo per primo contro il loro numero 1, uno che insegna tennis in questo circolo. La partita si mette subito male, i due litigano per una palla contestata al secondo game e cominciano a bisticciare in campo. «Io sono maestro di tennis, sto in campo tutto il giorno», dice l’avversario, come a dire che lui fa questo di mestiere e quindi ha ragione su questa palla contestata. Io sono seduto sulle tribunette in cemento costruite a ridosso del campo, e penso a voce alta dicendo «spero per i tuoi allievi che non insegni tennis come giochi, altrimenti sono problemi». I suoi compagni di squadra sentono tutto.

Il “maestro” ad ogni modo è superiore al nostro capitano e la partita si avvia a una veloce conclusione. Il sole picchia, ci saranno almeno 25 gradi alle 10 del mattino, e io lascio la tribunetta per andare a cercare un po’ d’ombra, salvando energie mentali non guardando il palleggio lento e alto di questa partita, un classico e scadente match di torneo di livello quarta categoria.

Vado a cambiarmi, e poi mi siedo all’ombra vicino l’ingresso del circolo. Arrivano i soci, con i giocatori anziani che sono i primi a prendersi i campi riservati alla pratica dei soci e le signore che arrivano tardi, curatissime nell’aspetto e con i i brand dei loro vestiti in bella mostra. Riservano sùbito il tavolo del ristorante, e poi accompagnano i loro piccoli alla lezione di tennis.

Tocca a me. Sento la tensione salire: è normale, mi dico. Stringo la mano a Giorgio, il mio avversario, un cinquantenne dalla pelle abbronzata e con i capelli tutti bianchi. Fisicamente sembra stare bene. Mentre mi incammino verso il fondo campo, in attesa che si asciughi l’acqua che ha saturato il colore della terra battuta, penso che le possibilità sono due: o si tratta di un giocatore che colpisce molto bene la palla, uno che ha giocato in passato a buoni livelli, oppure di un corridore instancabile. I cinque canonici minuti di palleggio sanciranno che si tratta della seconda ipotesi, un pallettaro dal grande fisico.

Colpisce male, infatti, ma rimanda tutto dalla mia parte. Io sono teso ma inizio bene. Conquisto un break di vantaggio, tengo il servizio salendo 2 a 0 e vado 0-40 sul suo servizio. Cazzeggio e butto tre palle break. Dopo dieci minuti, mi ritrovo sul 3 a 3 dopo essere passato sul 3 a 1. Lui, intanto, non tira più una palla: colpisce solo in backspin, di dritto e di rovescio. Generalmente non sarebbe un problema, purtroppo però c’è vento, tanto vento, e questa è la cosa più fastidiosa in una partita di tennis. Mi capita di leggere male i rimbalzi della palla, di colpire con sufficienza, commetto qualche errore di troppo e quindi eccomi a fare partita patta con un signore che ha almeno dieci anni più di me. Lo aggancio sul 5 pari tenendo il servizio con facilità. Non riesco più a spingere la palla, mi arrivano tutte palle mosce, senza peso; sbaglio qualche dritto di troppo e al servizio non spingo più la prima: se voglio vincere questa partita devo limitare al massimo gli errori e cambiare qualcosa del mio modo di giocare.

Intanto è arrivato Edoardo. Si piazza a bordo campo e mi incita. Io sorrido quando sbaglio l’ennesimo dritto. Due giorni prima giocavo a velocità supersoniche contro un 2.8, chiudendo dritti e rovesci di gran livello, curando i movimenti nei dettagli, la testa della racchetta rivolta in avanti nel movimento di preparazione del colpo per avere più inerzia, il finale con la rotazione interna dell’avambraccio (“windshield wiper”, il movimento a tergicristallo), e ora mi ritrovo a dover tenere la palla in campo e a pensare ogni volta prima di tirare un colpo: il bello e il brutto del tennis di quarta categoria.

Il vento arriva a folate, più volte siamo costretti ad aspettare che si plachi per dare il via al gioco con il servizio. Edoardo ribadisce a voce alta quello che io già chiaro in mente: «far passare la palla alta sopra la rete, farla girare in tospin e avere pazienza». Gioco due buoni game, faccio correre molto Giorgio e chiudo un paio di volée a campo aperto: 7-5 per me. Mi siedo sulla panchina bianca e tiro un grande sospiro di sollievo. Penso alcune cose durante questa pausa. Voglio vincere questa partita, e pazienza se sarò costretto a giocare colpendo piano per non sbagliare. Non mi interessa. Io voglio battere Giorgio per me, non per la squadra. Le partite vanno “portate a casa”, vinte, con ogni mezzo (lecito) possibile. E pazienza se i vincenti saranno pochi e la velocità di palla adeguata alla categoria: quello che definisce tale un giocatore è vincere partite del genere adattandosi all’avversario. Questo è il bello del tennis.

Sullo sfondo, in lontananza, i palazzi di Roma.
Sullo sfondo, in lontananza, i palazzi di Roma.

Rientro in campo, tocca a lui servire, e penso che devo iniziare sùbito bene. Uno a zero per lui, ovviamente. Pareggio il conto e salgo 2 a 1, che diventa 3 a 1. Batte di nuovo lui. Voglio allungare per chiudere la partita. Vado 0-30 ma lui risale a 30 pari. Qui giochiamo due punti magnifici. Mette la prima e iniziamo a scambiare. D’improvviso prende l’iniziativa e forza leggermente: mi sposta a sinistra, io rimetto un rovescio in mezzo al campo, centrale. Lui taglia col rovescio in backspin verso l’esterno, sul mio dritto. Io sono lontano dalla palla e inizio a correre con un solo pensiero in testa: tirare il passante. Non ho tempo per incrociare, né voglia di alzare un pallonetto, l’unica è tentare il banana-shot di Nadal sul lato destro. La preparazione del movimento è minima, uso molto l’avambraccio e soprattutto il polso: la frustata è eccezionale e quando termino la scivolata, sùbito dopo aver eseguito il colpo, guardo la palla andare verso l’esterno, sul corridoio, e poi virare dentro il campo, rimbalzando appena dentro la riga in lungolinea. Applausi e palla break.

Qui giochiamo il punto più bello della partita. Seguo a rete un attacco in back lungolinea, lui tira il passante e io faccio la volée sul mio lato destro. Ci arriva e rimette un pallonetto, torno indietro e tiro in lungolinea, lui gioca la smorzata, ci arrivo con la testa della racchetta dopo una corsa infinita, taglio talmente tanto la palla con una frustata di dritto che lui non riesce a colpirla prima del secondo rimbalzo. Ho chiesto il 110% al mio fisico e questo ha risposto bene, ho vinto il punto: 4 a 1 per me. Penso che sia finita, ed è così. Salgo 5 a 1, batte lui e recupera il game da 0-30 grazie a dei miei errori. Edoardo al cambio campo mi ripete il mantra degli ultimi game: «devi fare i primi due punti». Li faccio, 6-1. Gli stringo la mano facendogli i complimenti.

Siamo 1 a 1, il doppio deciderà la partita. Eddy si cambia, io vado al bar e mangio un po’ di cioccolata, visto che è ora di pranzo. Il ristorante ha tutti i posti pieni, vorrei mangiare ma fra poco si torna in campo e voglio solo dimenticare di avere fame. Intanto, la famiglia mi aspetta in un paese a nord di Roma. C’è un pranzo organizzato con i genitori di un bimbo che era nella classe di Samu l’anno scorso. Il bimbo, da me soprannominato Damien, era insopportabile. Con i genitori non sono mai riuscito a dialogare di cose interessanti. La mia supponenza fa il resto: li rivediamo questo sabato dopo un anno. Io avevo insistito per fare la domenica, quando sarei stato libero, ma i due invece sono stati fermi: «facciamo sabato, ché domenica c’è casino». A Roma c’è casino la domenica, invece il sabato tutto tranquillo, vero? Era un anno che li sentivo e dopo questo diktat ho comunicato a Clotilde che sarebbe passato un altro anno prima di rivederli. Si era fatta ora di pranzo, immaginavo Samu a correre sui prati verdi dell’agriturismo fuori Roma e io impegnato ancora dall’altra parte della città a lottare coi quarta categoria, i “wildling” del tennis. 

Loro schierano due nuovi giocatori, ma io ed Edoardo siamo convinti che batteremmo chiunque. Inizia la partita e andiamo avanti 1 a 0, col break. Dopo 10 minuti siamo 5 a 1 per loro, con il mancino dal servizio indecente, una rimessa in campo da amatore, che vuoi il vento vuoi la nostra disattenzione, riesce a crearci problemi. Prendiamo questo 6-1 rapidamente. Non siamo per niente in partita, io sono un po’ stanco fisicamente ma questo non mi crea problemi, vorrei che Edoardo mi trascini alla vittoria ma anche lui sembra distratto da altri pensieri, magari si starà chiedendo come sta sua figlia.

Ci diciamo che nel secondo inizieremo a fare sul serio, ma niente. Loro vanno sul 5 a 2 e noi ci guardiamo in faccia senza capire come questo sia possibile. C’è il vento, il campo non ha più terra, ma questo vale anche per loro. Batte ancora il mancino, la palla rimbalza talmente corta e senza effetto che io nel tentativo di colpirla scattando in avanti la stecco e la mando fuori di metri. Urlo che non è possibile, e il mancino mi fa: «Hai ragione, è un servizio indecente». Forse mi sta prendendo in giro, ma non direi, io gli dico che «ce l’avevo con me stesso, figurati». Sorrido: due giorni prima rispondevo due metri dietro la linea di fondo campo per rispondere al servizio del mio amico 2.8 compagno di allenamenti. Penso a una cosa che mi diceva mio fratello, seconda categoria anche lui, anni fa: «allenarti con me ti fa male». Ha ragione. Il mio livello è quello dei terza categoria probabilmente, ma gareggiando con i quarta devo abituarmi a giocare in altra maniera. Il mio guaio è sempre il solito: colpisco troppo bene perché so come colpire e mi lascio spesso ingolosire dalla giocata, ma questo non sempre serve al mio livello di gioco. 

Risaliamo fino a 5 a 4, ma battono loro. Non ci diciamo più niente io ed Edoardo. «Famo così, piamola a ride», mi dice. Sbagliamo meno, finalmente siamo entrati in partita e loro hanno un po’ di paura. L’altro giocatore, un ragazzo che colpisce la palla molto bene, specie nei pressi della rete come un vero doppista, accusa il colpo e commette due doppi falli. Ci procuriamo un killer point, e dopo uno scambio io mi ritrovo una facile volée alta da impattare un metro sopra la rete. Colpisco a tutta forza ma sbaglio clamorosamente, o meglio: non prendo il campo ma colpisco l’avversario, in testa. Questo lancia la racchetta e cade stecchito. Io scavalco la rete e chiedo scusa: fortunatamente sta bene, proseguiamo. Mentre torno nel mio campo dico a Edoardo «aoh, io c’ho provato». Ridiamo. Servo io sul 5 a 5 e andiamo subito 15-40. Annulliamo queste due palle e sul killer point mi ritrovo i due avversari a rete. Colpisco un dritto centrale di piatto, fortissimo, al corpo del doppista bravo. Questo, per proteggersi, usa la racchetta come foglia di fico e alza un lob lento e alto. Edoardo è sotto rete e carica lo smash. Il suo colpo migliore è il servizio, non avrà problemi a chiudere questa palla, penso. Invece la sbaglia, lunga: 6-5 per loro. «Almeno con questo è evidente chi ci ha fatto perdere la partita» dico al pubblico mentre mi avvicino alla panchina. Edoardo conviene con me. Perdiamo 7-5: siamo fuori dalla Coppa Gabbiani.

Stringiamo mani, facciamo e riceviamo complimenti, e io mi avvio a una rapida doccia perché voglio andare a recuperare la famiglia a Roma nord. Guardo l’orologio, sono quasi le tre. Le ultime parole sulla nostra performance sono di Edoardo, e sono ciniche come solo quelle di un romano potrebbero essere: «Ah Clà, sai che te dico? Almeno sta Gabbiani se la semo levata dalle palle». Lassù in cielo il cavalier Covelli deve averci strizzato l’occhio.  


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