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Le finali si vincono

Fine agosto a Roma, le mie vacanze già finite e quelli del tennis ancora tutti al mare. Quando torno a giocare al circolo, si sta giocando la finale del torneo di quarta categoria che il club organizza ad agosto, e che io non ho giocato perché ero in ferie. Prima di giocare un po’ in un pomeriggio caldissimo, guardo un paio di game del terzo set. La finale è combattuta. Penso che batterei entrambi quei due scarsoni senza problemi.

Riprendere a giocare dopo tre settimane di stop è sempre difficile, fra colpi scentrati, movimenti dei piedi fuori sincrono e fiato corto. Chissà quanto ci metterò a tornare in forma, penso. Ma in forma per cosa, poi? I campionati a squadre sono finiti e io non faccio un torneo da tre anni. Chiara, con cui gioco un pomeriggio, mi dice che vicino al nostro circolo faranno un torneo limitato ai quarta. Io, che sono 4.1 dopo la promozione a metà stagione di giugno, mi iscrivo. Ora, dopo le chiacchiere che faccio di solito, è tempo di passare ai fatti, di vincere questo torneo dove al massimo troverò dei pari classifica.

Gioco un paio di volte durante la settimana di attesa per il tabellone finale, quello dei 4.1 come me. Quando trovo il mio nome accanto all’orario di gioco, sento che la tensione diventa reale perché ora ho un dove e un quando da appuntarmi. Devo giocare contro un giocatore classificato 4.2, di domenica mattina alle 11.00: rock and roll. Sarà una partita facile, penso, e scendo in campo senza aver toccato la racchetta da un paio di giorni. Lo saluto, gli stringo la mano, e camminiamo insieme verso il campo.

Mentre percorriamo il vialetto che taglia a metà due schiere di campi, sento le farfalle nello stomaco. Mi tremano le gambe, le sento deboli, eppure sono fresco e riposato. Quasi tremo. Non c’è un motivo logico dietro questa tensione crescente: ancora devo iniziare a giocare eppure la pressione mi sta già divorando.

Inizio a giocare e sono subito sotto 2-0. Recupero nel punteggio, ma sto giocando malissimo: i primi cinque rovesci che tiro finiscono tutti fuori o larghi. Assurdo. La palla non gira, almeno non come la testa, impegnata a elaborare pensieri e costrutti mentali sul perché io, in quel momento, non sia in controllo di ciò che sto facendo in campo.

Mi sembra che questa paura si impadronisca sempre di più della mia tranquillità, erodendo le mie certezze tennistiche fino a spazzarle via, cancellando mesi di allenamenti e di tentativi di migliorare quel movimento o di non sbagliare quella palla facile da chiudere. Tutto adesso è solo un gioco mentale: devo liberare la mente da questi pensieri e ritrovare la tranquillità per cercare di riportare la partita sul piano tennistico, dove sono più bravo perché so fare più cose. Adesso non devo pensare al punteggio.  

Lui sbaglia qualcosa, io mi arrabatto cercando di tenere la palla in campo e riacciuffo la partita pareggiando sul 3-3. Vado addirittura in vantaggio di un break, sul 4-3, ma non riesco a mantenere il margine. Fortunatamente per me, lui perde il servizio malamente sul 5-4 e io vinco il primo set. Eppure non potrei essere più scontento.

Dovrei sentirmi meglio, no? E perché allora non è così? Perché in quel campo deserto dove non c’è nessuno a vederci io non riesco a palleggiare con regolarità da fondo campo?

Il secondo set è la fotocopia del primo: vado sotto, recupero, torno avanti, lui recupera di nuovo. Ogni tanto gioco libero dai pensieri e riesco a fare bei punti, altre volte commetto errori banali o faccio delle scelte illogiche, io che sono sempre pronto a rimbrottare Tsonga o Nishikori davanti la tv. Non so come, ma arrivo a servire per il match sul 5-3. Mi dico due cose: metti la prima palla e non sbagliare da fondo campo. Perdo il game a zero con un paio di doppi falli.

Sembra una partita di tennis femminile, e io odio la WTA.

Mi manca un game per vincere quella partita. Sono seduto su una sedia di plastica bianca mentre mi asciugo il sudore, fa caldissimo, è quasi ora di pranzo, e nonostante sia vicino a vincere, mi sento irrequieto.

In questo momento non desidero altro che uscire dal campo, vincendo sì, ma anche perdere andrebbe bene. Vorrei tornare il prima possibile ad avere il controllo delle mie emozioni, quelle che ho imparato a gestire: il sorriso di mio figlio, il cazziatone a lavoro, l’abbraccio di mia moglie. Cose infinitamente più grandi di quegli attimi in cui mi sento rinchiuso su un campo dove righe inchiodate sulla terra in punti precisi dovrebbero aiutarmi a trovare un ordine mentale, e invece mi sento perso nei pensieri che si moltiplicano in testa, impedendomi di trovare una rapida via d’uscita da quello stato di insicurezza. Eppure è semplice: vincere quell’ultimo fottuto game mi riporterebbe in controllo delle mie emozioni.

Lui fa il primo punto, ma io cerco comunque di pensare positivo, di non autocommiserarmi. Vinco il seguente, e poi quello dopo ancora. Arrivo a matchpoint, e chiudo vincendo lo scambio più lungo della partita. È finita, ho vinto: ora mi sento bene.

Speravo di gestire meglio questa vittoria il giorno dopo, ma niente: nel momento in cui sono uscito dall’ufficio per andare verso il campo ho sentito le farfalle tornare a farsi sentire nello stomaco. Su via Nomentana, a due passi dal circolo, questo valzer addominale è diventato vorticoso, un crescendo che io non vedevo l’ora di far terminare, cercando di arrivare presto al campo per iniziare a giocare la partita perché solo dopo l’ultimo punto sarei tornato in controllo di me stesso. Assurdo. Quando arrivo, il giudice mi dice che l’avversario non viene: è stanco dal match precedente. «Ha fatto i punti per rimanere 4.1 ieri, dice che je faceva male la schiena, che ha finito de gioca’ tardi e quindi nun viene».

Un giorno di riposo mi è utile a riordinare le idee, o forse sarà la birra della sera prima con gli amici del calcetto. Al turno seguente, i quarti di finale, arrivo rilassato. Sono a casa, stanco di quella stanchezza annoiata di una giornata in ufficio pure passata a trollare su Twitter, scrivendo inutili facezie per inutili aziende desiderose di vendersi bene nella comunicazione mondiale.

Mentre vado al campo sono tranquillo, la tensione questa volta non la sento. Non mi va neanche di scaldarmi, muovo giusto un po’ le gambe ma svogliatamente, e mi faccio cambiare le palline dal giudice arbitro che borbotta un po’. Inizio a giocare contro la testa di serie numero due del torneo. Che non è un fenomeno: gioca peggio di me, rimette solo la palla e corre. Solo che giochiamo di sera, non si vede nulla perché l’illuminazione è scarsa. Un lato del campo è praticamente buio e, come se non bastasse, verso le nove accendono i fari del calcetto che puntano in direzione frontale, rendendo il servizio una gara di tiro al piccione: benvenuti nell’inferno dei quarta categoria.

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Il viale claustrofobico che porta ai campi, si vede poco anche lì.

Parto bene e vado subito avanti nel punteggio, conquistando il break al secondo game per poi allungare sul 3 a 0. Sembra facile, però permetto al mio avversario di rientrare in partita. Sul 4-2 e servizio per me, concedo una palla break per far tornare in partita l’avversario. L’annullo vincendo lo scambio più bello della partita, chiudendo un rovescio incrociato colpito ben al di sotto della rete, in contropiede. Riesco a salire 5-2 e poi chiudere 6-2 il primo set.

Ho avuto paura, per un attimo, e non dovevo. Concedere una palla break non è la fine del mondo, ma lui non doveva mai arrivare a 40 sul mio servizio: è troppo scarso. Devo stare più concentrato, ancora di più.  

Mentre recupero le palline per iniziare a servire nel secondo set penso che devo partire bene, sùbito in vantaggio. E invece perdo il game. In un impeto di orgoglio, alzo il ritmo colpendo forte fin dalla risposta al servizio. Recupero e faccio sei game di fila, vincendo 6-1 il secondo set. «Sei di un’altra categoria», mi dice Amedeo appena battuto. «Eh», gli rispondo.

Mio figlio vuole la coppa, e per portarne una a casa c’è da vincere la semifinale, che gioco contro Emanuele nel tardo pomeriggio del giovedì. Iniziamo con il sole che fa ancora capolino; lo studio mentre ci scaldiamo: non è alto, e quindi penso che andrà in difficoltà sulle palle alte e anche nei recuperi di lato. Io, prima di scendere in campo e dopo una giornata passata a preparare il match in una chat di Skype con dei sedicenti giornalisti tennistici, mi sono scritto tre cose sull’avambraccio con una penna:

  1. Prima palla
  2. Lunghezza
  3. Berlocq

Voglio un’ottima percentuale sulle prime palle, quindi, e poi voglio variare la lunghezza di palla, per non dare punti di riferimento a chi gioca solo di rimessa. Il terzo punto è un reminder psicologico: a questi livelli si vince soffrendo,  con pazienza, à la Berlocq. Eseguo tutto ma poi Berlocq si trasforma in “Thiem”, perché dritto e rovescio sono a puntino e io apro il campo in laterale con i cross per poi chiudere spesso con dei vincenti in contropiede.

Mi sento in fiducia, non avverto più la pressione. Ho avuto paura nei giorni precedenti ma mi sono convinto che sono forte a questi livelli, e che perderò solo se troverò uno più bravo di me tennisticamente. Non perderò per le mie insicurezze, frutto dell’immaginazione o della pressione. Non in semifinale.

Vinco 6-1 6-1, raccolgo i complimenti di Emanuele, che mi dice che lui da fondo campo comunque ha retto il ritmo del mio palleggio. «Certo certo, ho visto», gli dico con tono serio e rispettoso. Lui non coglie il sarcasmo.

Sono in finale, ma ora tocca vincerla, come diceva Garcia.

Due minuti rilassato sulla panca subito dopo aver vinto la semifinale: è bello
Due minuti rilassato sulla panca subito dopo aver vinto la semifinale: è bello.

Si gioca sabato a mezzogiorno. Fa caldo, sopra i trenta e con un’umidità alta, e sulle tribune al coperto ci sono Clotilde e Samu a vedermi. La partita, questa volta, la preparo assieme a mio figlio:

«Papà, ma vinci la coppa oggi?»
«Certo, amore»
«Io voglio quella grande, me la regali?»
«Sicuro»
«Ma tu vinci perché sei un fenomeno? Vinci perché sei il più forte di tutti?»
«Ovviamente»
«Papà sei come Djokovic!», conclude, lui che è mancino e gioca con una mini Wilson.

Con questa premessa motivazionale, come posso perdere questa partita?

L’avversario è un ragazzo, un ventenne, e si presenta accompagnato dalla madre. Io ho passato tutta la mattinata nell’attesa snervante di questa partita: avevo molta voglia di giocare e francamente non vedevo l’ora, ma non per paura, volevo veramente giocare questa partita per vincerla. Iniziamo a palleggiare per scaldarci, sono un po’ teso e non ne imbrocco una solo perché ho fretta di iniziare a giocare. Vinco il sorteggio, scelgo di battere. Faccio rimbalzare le solite quattro volte la palla sul campo, lo guardo, scelgo di battere una prima esterna. Entra, lui si allunga e risponde con un lungolinea fulmineo: è un vincente.

Non mi impressiono, è stato un colpo di fortuna di sicuro. E poi so bene che questi ragazzi vogliono tirare forte, mettere paura a uno che ha il doppio dei loro anni.

Alla fine, riesco a vincere il game ai vantaggi. Si suda, entrambi abbiamo l’asciugamano a portata di mano. Lui tiene il suo servizio facilmente e pareggia sull’1-1, ma io vado sul 2-1 alzando un po’ il livello di gioco.

Quel po’ di tensione iniziale non c’è più, ora è solo una partita di tennis e vince chi gioca meglio, anzi, ancora prima: vince chi è più forte, vinco io.

Faccio il break, allungo sul 4-1 e praticamente chiudo lì il primo set. Giochiamo sulla diagonale del dritto, e io gliene chiudo un paio che lo spaventano, lasciandolo a metri dalla palla o cogliendolo in contropiede. Lui sa chiudere il punto, se io accorcio e non spingo bene lui prova il vincente; di rovescio tiene ma non mi mi mette mai pressione, ed è da questa parte infatti che io indirizzo la palla giocandola alta, à la Thiem insomma. Vado facilmente sul 5-2, anche perché lui infila doppi falli con buona continuità. Serve lui e vado subito 0-40. Fallisco i primi due set point sbagliando due punti facili.

Eccola qui, è tornata la pressione. Ma è logico, dai, sto chiudendo il set e so bene che se vinco questo giocherò ancora più sicuro e rilassato il set seguente. Manca un punto, magari me lo dà lui, vai a vedere.

Doppio fallo, è 6-2: è quasi fatta.

Al cambio campo mi giro a guardare la famiglia: Clotilde gioca con l’iPhone mentre Samu guarda i cartoni sull’iPad. Mi sta bene così, i loro comportamenti non mi influenzano minimamente, e capisco che questo sport è noioso se non lo si ama, soprattutto da guardare.

Si riparte, manca un set alla coppa. Perdo il servizio nel primo game, come in semifinale: sarà un vizio.

Non perderò di certo ora, non con questi dritti e rovesci così arrotati e profondi: devo solo recuperare questo game e passare in vantaggio. Sono più forte, l’ho capito, il punteggio del primo set lo dice, perché il secondo dovrebbe andare diversamente?

Recupero il break, vinco anche il game seguente e passo in vantaggio: 2-1 per me e servizio.

Decido che tirerò dritto senza fermarmi più. Sono perfettamente in palla ora, sicuro dei miei colpi, contento di giocare sotto questo sole che mi rosola la pelle ma che a me non dà fastidio. Tutto funziona bene, le gambe sono pronte a portarmi ovunque.

Confermo il break di vantaggio senza problemi, concentrandomi sui primi due punti del game, quelli da vincere per farmi giocare in sicurezza. Serve lui sul 3-1, e so benissimo che vincendo questo game vincerò la partita, di fatto. Lo sposto senza problemi, e badando al sodo senza molti fronzoli lo faccio correre sfruttando soprattutto le rotazioni con il dritto. Vado sul 4-1, che diventa 5-1 nel tempo in cui Clotilde si fa un selfie da pubblicare su Instagram per ammazzare la noia. Samu al cambio di campo mi ha aveva appena chiesto se stessi vincendo. «Sì», avevo risposto un po’ imbarazzato, visto che il mio avversario mi stava ascoltando. Servo sul 5-1, vado sul 40-0 facilmente perché lui oramai ha mollato. Tiro un dritto a rete sul primo match point, ma nel successivo incrocio sul suo dritto durante uno scambio talmente forte che la sua ribattuta finisce fuori di metri nel tentativo di controllarla. Ho vinto il torneo.

Senza alzare le braccia, senza sfogarmi, senza urlare: un sorriso è il massimo che mi concedo per questa vittoria, perché dovevo vincere questo torneo e l’ho vinto, perché ero il più forte in gara e l’ho dimostrato. Ma è comunque bello, perché il giorno dopo non ci sarà nessuno da affrontare e perché vincere fa bene alla salute.

Gli stringo la mano e lui quasi la scansa: sta rosicando tantissimo, io godo. «È finita», dice uno spettatore sulle tribune, e Clotilde si gira e mi guarda, distogliendo lo sguardo dalla schermata dell’iPhone. «Hai vinto?», mi chiede. Sorrido ancora, sorride anche lei. Arriva Samu, e mi abbraccia mentre arrossisce. Vuole la coppa e dice che è tanto emozionato che ho vinto il torneo.

La più spartana delle premiazioni, mentre sul campo adiacente ancora va avanti la finale del torneo di quarta femminile, roba che durerà ancora chissà per quante ore, mi vede prendere questa coppa che io giro sùbito a Samuele. Anche Clotilde, che non è mai tenera col tennis, è contenta. Se proprio devo partecipare a un torneo è meglio vincerlo, no?


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