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Un nuovo giorno

Ora che tutto si è compiuto, ora che i tasselli sono tornati al loro posto, ora che il mondo è tornato in equilibrio, ora che Sir Andrew Barron Murray è il numero 1 del mondo forse (forse) possiamo tornare a seguire il tennis. Uno sport che negli ultimi 15 anni era stato preda di semidei dal ciuffo ribelle, nemesi taurine, invincibili dal mento volitivo, torna a noi umani che siamo così nevrastenici, indolenti, distratti. Che siamo così tanto come Andy Murray, il ventiseisimo uomo da quando esiste un computer che fa i conti, ad essere diventato il più forte di tutti, o almeno il migliore in quell’arco di tempo che impiega la terra per girare attorno al sole comunemente chiamato “anno”.

Persino il modo con cui è diventato numero 1 è da very normal man. Un avversario affaticato, un torneo al chiuso, un tempo tendente al grigio. Niente a che vedere con le urla belluine di chi l’ha preceduto o con la sovrumana compostezza di chi ha preso questo sport e ne ha fatto simbolo di qualcos’altro, di indefinibile natura. Murray ha attraversato tutti gli stadi di maturazione di quel legno storto che è l’essere umano. È stato travolto dalla pressione di quegli assurdi d’Oltremanica che reclamavano un fuoriclasse perché che figura ci fanno ad avere quel torneino e poi non vincerlo mai? È stato ad un passo dalla vetta quando da ragazzino cominciava a perdere finali con quei tre, quelli che vincevano sempre. Che fosse uno diverso dagli altri si è capito una sera australiana, quando al cospetto del semidio ha trovato il modo di dire «I can cry like Roger, it’s a shame I can’t play like him». È sembrato allontanarsi dal tennis dopo aver vinto quello stramaledetto torneo, per via di un infortunio molto serio. È tornato sbraitando sempre a bocca aperta ma con calma, sia consentito il paradosso, mentre nel frattempo le sue esperienze di vita crescevano fino ad interessarlo ad un mondo diverso da quello di quel rettangolo. Indipendentista quando non è di moda; silenzioso quando non capiva; con la prima allenatrice donna per uno che sarà, che è, numero 1 del mondo, e visto che c’era, omosessuale, a cui dedicare la vittoria al momento della nascita del figlio; padre lui stesso, tanto da fargli perdere i primi tre mesi di quest’anno, Andy Murray ha coperto così tanto la sua vita da far perdere di vista quanto ad un certo punto, semplicemente, fosse diventato il più forte di tutti.

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Per Roger Federer, Andy Murray è già sir.

Già a Montecarlo, sconfitto da Nadal, e a Madrid, sconfitto da Djokovic, si era capito che non erano le solite sconfitte. Avversari dominati a lungo, poi lasciati un po’ andare perché Andy è uno normale, se deve perdere tutto il tempo del mondo per farti un maledetto punto forse non vale la pena. Ma la vittoria di Roma, la stessa sconfitta di Parigi, che ha illuso l’ex numero 1 che davvero potesse essere invincibile, hanno segnato più che la svolta l’approdo. Murray perdeva sempre meno tempo, vinceva passeggiando, se la partita si complicava non sembrava mai potesse veramente perderla. Gli esperti notavano quei due, forse tre passi dentro il campo su qualsiasi seconda di servizio, lontana dalla SABR ma terribilmente più efficace. Un Wimbledon stravinto come forse solo Federer, un’olimpiade giocata un po’ così ma vinta lo stesso, poi le sconfitte di Cincinnati e quella incredibile di New York, da strafavorito quasi a voler far credere a tutti che in fondo, il numero 1, è solo per i numeri 1, per gli altri, non per un essere umano. E invece, tornato in campo dopo una Davis incrociata con un altro personaggio umano e bizzarro come del Potro, Murray non ha perso più. Ha vinto a Pechino, ha vinto a Shanghai, ha vinto a Vienna, vincerà a Bercy. E senza neanche fare tutta la fatica del mondo, cosa che finiva col pagare in semifinale o in finale. Ogni tanto, a Vienna e proprio a Bercy ma con due un po’ fuori di melone come Klizan e Verdasco, è ritornato a concedere qualcosa, ma l’ultimo set perso senza tiebreak è stato quello di Davis, o quello di New York. Ed erano due quinti set.

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Murray è entrato nel ranking ATP per la prima volta il 21 luglio 2003.

Andy Murray è diventato numero 1 e si sono precipitati tutti ad ascoltarlo. Chissà che pensieri si affollavano nella testa di uno che dopo la vittoria di Wimbledon, guardando Lendl che era tornato da due settimane ad allenarlo con un sottile sarcasmo, disse «è un uomo fortunato…» e che a Cameron, subito dopo la Brexit concesse l’onore delle armi: «il suo mestiere è più difficile del mio». E qual è stata la cosa che è venuta in mente allo scozzese? «Guardate che non è matematico. Se mi squalificano domani perdo tutto i punti della settimana…» Quando ormai era chiaro che il numero 1 sarebbe arrivato, sùbito dopo Shanghai, Murray ha pensato bene di partecipare ad un’inchiesta sugli uomini e la loro difficoltà ad esprimere le emozioni. Ha ricordato che in fondo, le lacrime, hanno permesso alle persone di rispettarlo maggiormente «for letting off the pressure cooker of emotion» ma soprattutto «for letting the mask slip». Chissà se e quanto lo avrebbe amato Erving Goffman.

Murray alla fine dell’anno avrà intorno ai 12 mila punti in classifica, l’anno scorso Djokovic arrivò a più di 16 mila ma l’anno prima si era fermato a 11. È un grande campione, Andrew Barron Murray. Di più: nevrastenico, indolente, distratto, umano. Ma nell’anno del signore 2016 è stato il migliore di tutti a giocare a tennis.

Andy Murray


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