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Gli introvabili

Quando ero piccolo, diciamo circa quindici anni fa, giravano tra i miei coetanei delle gomme da masticare che in breve tempo divennero un business di cui ora in pochi si ricordano, anche se ogni tanto qualche blog nostalgico degli anni ’90 ritira fuori questa storia. Era un album di minifigurine dei calciatori, immagini adesive che non si compravano nelle classiche buste dall’edicolante, ma erano incartate e allegate a delle pessime gomme da masticare di cui ricordo ancora il terribile sapore, un misto di fragola e dio solo sa cos’altro. Ricordo in particolare una palla formata da tutte le gomme che avevo scartato e mai masticato, come se quelle gomme, frustrate dalla loro inutilità, avessero deciso di unire le loro misere esistenze in una massa informe, rosa e nauseabonda.

Il business della Topps si basava su un’idea tanto meschina quanto banale. Le gomme avevano un prezzo più che accessibile: 100 lire ognuna per avere tre figurine. Con 1000 lire, insomma, si potevano avere 30 figurine. Semplicissimo completare l’album, no? Beh, non così semplice in realtà, perché c’erano due figurine introvabili: quella di Volpi del Piacenza e quella di Poggi dell’Udinese. Anni dopo si scoprì che la Topps aveva stampato pochissime copie delle figurine di questi due giocatori, e mentre l’editore si arricchiva alle nostre spalle, noialtri poveri ragazzini abboccavamo ad ogni tipo di leggenda metropolitana. Gli avvistamenti di Volpi e Poggi non si contavano, peccato che non avvenissero mai nel tuo paese, ma in quello vicino. Per cui alcuni di noi, i più creativi, si inventarono un metodo alternativo per portare a termine l’agognata missione: incollarono al posto di Volpi e Poggi due figurine di calciatori, che, si diceva, erano pressoché uguali agli ambitissimi.

Quando penso a Paolo Lorenzi e a Carlos Berlocq, che ieri si sono affrontati al primo turno degli US Open, mi viene sempre in mente quel trucchetto perché, almeno per me, è difficilissimo distinguerli. Talvolta mi immagino che, qualora uscisse un album di tennisti della Topps, potrei tranquillamente usare la figurina di Lorenzi per sostituire lo spazio vuoto di Berlocq e viceversa. Non è che siano così simili – poi uno porta il cappellino con la visiera a rovescio e l’altro no – e hanno entrambi un grunting ben distinguibile, ma per me è come se fossero un’unica espressione della stessa filosofia tennistica operaia. Sono stati separati alla nascita, immagino, e Mamma Tennis gli ha dato in dono ben poco, dicendogli che se lo dovano far bastare: un servizio mediocre, un dritto macchinoso e solamente arrotato, un rovescio discreto, due gambe prodigiose e delle corde vocali molto resistenti.

Gli organizzatori degli US Open hanno messo il match tra Lorenzi e Berlocq sul campo 14, che naturalmente non è coperto dalle telecamere, per poi spostarli sul 15, probabilmente per renderli introvabili come Volpi e Poggi. I nomi che giocano su questi campi invisibili sono tutti nomi di secondo e terzo piano dei carrozzoni ATP e WTA: sul 14, per esempio, hanno iniziato Yaroslava Shvedova e Laura Arrabarruena, poi è toccato a Victor Troicki e a Radu Albot, come terzo match è scesa in campo addirittura una testa di serie (Laura Siegemund, numero 26, contro Patricia Maria Tig). È bello immaginare la quiete di quei campi, lontano probabilmente almeno mezzo chilometro dallo stadio più chiassoso ed esagerato del circuito. Ci saranno stati pochi spettatori, metà dei quali ha dovuto controllare su Wikipedia la biografia dei due tennisti, prima di rendersi conto di trovarsi di fronte a quello che, almeno sulla carta, dovrebbe essere un classico da Challenger (l’altra metà è lì per caso o perché ha sbagliato campo; una piccolissima percentuale di tennishipster è lì per vedere la partita).

Campo periferico, Lorenzi-Berlocq e lattina di Heineken Light. Serve altro?

La cosa buffa è che Berlocq e Lorenzi, pur avendo giocato tantissimo a livelli inferiori (Lorenzi ha vinto 18 Challenger e 4 Future, Berlocq ha 14 Challenger in bacheca), si sono incontrati appena quattro volte nei Challenger, e sempre in Italia. Nel 2005, a Mantova, vinse Berlocq; quattro anni più tardi, a Todi, Lorenzi pareggiò i conti e l’anno successivo, a Caltanissetta, si portò avanti negli head-to-head; nel 2011, ancora a Todi, Berlocq andò sul 2-2 con un secco 6-1 6-2 in semifinale, rimandando l’esordio di Lorenzi nei top-100, che sarebbe arrivato di lì a un anno. Sembra incredibile, ma l’head-to-head tra due dei più valenti lottatori del circuito ATP, è fatto quasi esclusivamente da punteggi molto netti. Solo nel 2009, a Todi, finì 7-5 al terzo. Per il resto è sempre finita in straight sets e con pochissima lotta.

Da quella semifinale, Lorenzi e Berlocq si sono persi di vista e in questi cinque anni è successo di tutto. Nel 2012 Lorenzi è finalmente diventato un top-100, proprio nello stesso anno in cui Berlocq raggiungeva il suo best ranking al numero 37 del mondo, grazie soprattutto agli ottimi risultati ottenuti nella Gira sudamericana che si tiene dopo gli Australian Open. Ma Lorenzi, che è nato nel 1981, due anni prima di Berlocq, non si accontenterà di quel risultato che aveva inseguito per tutta la carriera. Salirà e scenderà dalla top-100 per circa tre anni, poi nel 2016, quando ha 35 anni e gran parte dei suoi coetanei sta pensando a come passare il tempo, vive la stagione migliore della sua carriera. Paolo arriva al numero 39, due gradini sotto al miglior ranking di Carlos, e alle Olimpiadi di Rio si presenta come il numero 1 del suo paese.

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Tribune sprovviste di amanti del tennis operaio

Berlocq alle Olimpiadi invece non c’è andato, perché in tabellone c’erano già quattro argentini meglio classificati di lui, ma il suo 2016 non è stato malaccio. L’anno scorso ha chiuso fuori dai 100 per la prima volta dal 2009, a inizio anno è sceso fino al numero 155 ma dal Roland Garros in poi ha conquistato degli ottimi risultati che lo hanno riportato intorno alla settantesima posizione del ranking. Ovviamente la rinascita di Berlocq è passata dai Challenger su terra battuta: quarti a Lione, vittoria a Blois, semifinale a Milano, a Båstad e soprattutto ad Umago, che non è un Challenger ma un ATP 250. Forse non è un caso che il Roland Garros, lo Slam in cui è andato più vicino a giocare il terzo turno (nel 2015 andò al quinto nel match di secondo turno contro Richard Gasquet), sia stato il torneo da cui Berlocq è riuscito a ripartire. E proprio a Parigi ha ritrovato il suo vecchio gemello, Paolo Lorenzi, nel miglior momento della carriera. È finita con un altro punteggio a senso unico, ancora per Berlocq: 6-3 6-0 6-2.

Sotto il sole cocente di New York, su una superficie sgradita ad entrambi, è andato in scena il loro ottavo incontro. Non si sono incontrati per cinque anni, poi hanno finito per incrociarsi due volte nella stessa stagione, per giunta nel tabellone principale di uno Slam. Il loro secondo match del 2016, la rivincita di quel brutto primo turno del Roland Garros, è terminato con il punteggio che si aspettavano coloro che avevano controllato gli head-to-head e cioè tanto a poco: 6-4 6-2 6-1 per Paolo Lorenzi, che arriva al secondo turno degli US Open per la seconda volta in carriera. Chissà che cosa si saranno detti a rete. Chissà cosa ha pensato il numero 1 d’Italia mentre veleggiava verso il secondo turno come se fosse una testa di serie come tante. Chissà cosa pensavano i pochi spettatori – tanto gli affezionati quanto i distratti – mentre quei due rantolavano sul campo con quelle urla che rendono il loro tennis ancora meno digeribile.

Chissà cosa si sarà detto Berlocq quando una pallina gli è scivolata dai pantaloncini quando stava giocando un punto fondamentale del primo set, l’unico in cui se l’è potuta giocare. Il campo 14 è uno di quei campi magici in cui le telecamere non sono ancora arrivate, dove i segreti restano lì e lì vengono custoditi solo da pochi sacerdoti del tennis minore che si guardano bene dal diffonderli a destra e manca. Magari qualcuno di loro si è pure creato un album di minifigurine. Non lo sapremo mai, e va bene così.

Carlos Berlocq Paolo Lorenzi US Open 2016


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