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Gli insospettabili

Qualche giorno fa la WTA ha pubblicato una bella e lunga intervista a Francesca Schiavone, una delle tenniste del momento. Come tutti sapranno la Federtennis ha annunciato che non le avrebbe assegnato una wild-card (sono gli inviti a disposizione degli organizzatori per far partecipare al torneo qualcuno di particolare interesse per il pubblico e che non avrebbe la classifica sufficiente) per gli Internazionali d’Italia preferendole Sara Errani e Maria Sharapova. La settimana durante la quale è stata comunicata la decisione della Federazione Italiana Tennis, Schiavone era impegnata nell’International di Bogotà. Francesca, precipitata oltre la centesima posizione, non aveva la classifica per entrare, pur essendo una competizione di livello minore: gli organizzatori del torneo colombiano, però, sono stati ben contenti di invitare un’ex campionessa Slam e lei li ha ringraziati come meglio non poteva, vincendo il torneo e tornando così a ridosso delle prime 100 del mondo. Un paio di settimane dopo Schiavone è andata a Rabat, in Marocco, ancora grazie ad una wild-card, e anche se non ha vinto il titolo, i punti ottenuti con la finale nel torneo marocchino le hanno permesso di rientrare comodamente tra le prime 100 del mondo mentre a Roma qualche dirigente dev’essersi morso le mani per le parole poco lusinghiere spese per lei pochi giorni prima.

Considerato che Francesca Schiavone non è soltanto un’ex campionessa Slam di 36 anni che molti davano per finita, ma è anche una donna che parla in maniera piuttosto schietta, era logico che a Madrid, dove le hanno offerto l’ennesima wild card, la WTA cogliesse la palla al balzo. L’italiana è una manna dal cielo per chi è sempre alla caccia di qualche bella storia da raccontare. E Francesca non ha deluso. L’highlight dell’intervista è questa frase, che ovviamente ha fatto il giro di Twitter:

No! Puoi dire a tutti quanti di chiudere la bocca, perché io ho due palle così. “Ma hai 36 anni” E tu ne hai 50! Voglio andare sull’Everest, vado sull’Everest. Qual è il tuo problema?

La brillante intervistatrice è Courtney Nguyen, ex avvocato, poi giornalista di Sports Illustrated, approdata da circa un anno alla WTA e oggi responsabile del progetto WTA Insider, che comprende un seguitissimo account Twitter e vari contributi sul sito WTA, come l’intervista a Schiavone. La mission dell’ex avvocato, come dicono quelli bravi, è sottolineare il valore del circuito femminile raccontandolo da una prospettiva interna, una specie di dietro-le-quinte che ha riscosso un certo successo, almeno sui social media.

Courtney Nguyen è uno di quei nomi che chi segue il tennis con una certa regolarità deve conoscere: il suo profilo personale su Twitter ha 24mila follower, ha firmato per anni su una delle testate più prestigiose degli Stati Uniti e chi ha la fortuna di essere accreditato a qualche torneo prestigioso sa per certo che la troverà in sala stampa – a meno che non si tratti di un torneo esclusivamente maschile, si capisce. Un anno fa Nguyen ha dichiarato a Ubitennis che vorrebbe che “il circuito WTA venisse trattato come uno sport, non come una sfilata di moda di belle ragazze che colpiscono una pallina”. Il tennis femminile, e non certo dalle esternazione di Moore dello scorso anno, sconta infatti molti pregiudizi che lo riducono ad una specie di disciplina secondaria rispetto al tennis maschile, nel quale le stelle dei Fab Four rifulgono di una luce talmente accecante da togliere importanza a tutto il resto.

Nguyen è molto attiva sulle tematiche femministe: ha scritto spesso e volentieri dei tweet molto polemici nei confronti del Presidente degli Stati Uniti d’America Donald Trump, e recentemente, quando Ilie Nastase ha dato delle “puttane” a Johanna Konta ed Anne Keothavong, non prima di aver fatto un commento razzista sul figlio di Serena Williams, ha scritto una lunga serie di tweet non solo per condannare i commenti maschilisti di Nastase, ma anche per prendere le difese di Sorana Cirstea, la quale aveva sostenuto che la reazione delle britanniche, tutto sommato, era una scenata. Cirstea è stata molto criticata per quella posizione, ma Nguyen ha ricordato a tutti da quale background provenga la tennista romena. Ma torneremo più tardi su questa curiosa “difesa”.

Nguyen, insomma, nel suo ruolo non può essere nient’altro che un’integerrima femminista che difende i diritti delle donne e che interpreta in maniera molto seria il suo mestiere da comunicatrice. È un lavoro tutto sommato nuovo per lei, visto che fino a pochi anni fa questa giornalista si occupava di tutt’altro. Da semplice appassionata molto attiva sui social e nei forum specializzati, è diventata una delle voci di riferimento – se non la voce di riferimento – per chi segue la WTA. Insomma, alla luce di tutto questo è davvero difficile pensare che la stessa persona che ha twittato questo:

O questo:

Sia la stessa che meno di sette anni fa scriveva questo:

Tranny è il nome con cui Nguyen chiamava – scherzosamente, si capisce – proprio Francesca Schiavone. Non serve molta fantasia per capire che cosa significhi quel soprannome, ma un aiutino ce lo dà Courtney stessa nel suo blog, quello che ha abbandonato definitivamente nel 2013, due anni dopo essere stata assunta da Sports Illustrated:

Tranny – il soprannome di Francesca Schiavone perché assomiglia a una transessuale (tranny). Cattivo, lo so, ma non posso fare a meno di pensarlo.

Facendo una breve ricerca su quel blog, si trova più di qualche occorrenza del soprannome. E non si scopre solo che viene usato per esilaranti gag che coinvolgono l’inconsapevole Schiavone (del tipo “Una mela al giorno non toglie il transessuale di torno”, potete fidarvi sulla parola se proprio non ve la sentite di cliccare su questa spazzatura), ma, udite udite, anche per le sorelle Williams e Victoria Azarenka (ma in questo caso Courtney ci dice che è troppo di classe per fare questo tipo di battute). Qualche tempo dopo quel post (datato 2008), probabilmente dopo aver trovato un lavoro che non le consentiva di esprimere in maniera così spensierata la sua innata verve comica, Nguyen dev’essersi pentita di quel soprannome. Invece di cancellare il post in cui spiegava il soprannome, prese la questione di petto e aggiunse una postilla:

AGGIORNAMENTO: l’ho ripudiato da anni. Sono imbarazzata e mi vergogno di averlo usato. L’ho fatto. Non posso scapparne.

Le scuse di Nguyen, insomma, sono queste, anche se è lecito pensare che si sarebbe potuto fare meglio di una modifica su un blog ormai sepolto nel buco nero del World Wide Web. I tweet invece sono rimasti lì dove sono sempre stati, forse perché Nguyen ritiene di non avere nulla da nascondere, forse perché quel commento di scuse le è parso sufficiente, forse perché si è scusata privatamente con Schiavone da chissà quanto tempo. Quello che resta è un epiteto francamente disgustoso che Nguyen, una donna adulta, ha utilizzato per anni, per poi “ripudiarlo” in concomitanza con compiti che certo non possono tollerare tanta leggerezza.

Quel che è più inaccettabile di tutta questa faccenda non è tanto la gravità dell’epiteto sessista con cui si rivolge ad una tennista sulla cui sessualità, peraltro, si è discusso fin troppo. Non lo è nemmeno il fatto che Nguyen faccia parte della WTA, un’associazione che da molti anni è in prima linea – con ottimi risultati – nella lotta per l’equiparazione dei diritti delle donne a quegli degli uomini. La cosa davvero raggelante è il giustificazionismo che è nato intorno alla questione, il silenzio della WTA nonostante Alizé Cornet, numero 44 del mondo con oltre 100.000 follower, abbia chiesto spiegazioni alla diretta interessante. Spiegazioni che magari saranno arrivate a Cornet in forma privata, ma che rendono la questione forse ancora più sconcertante: perché mai la WTA non sente il bisogno di dire una cosa semplice come “quello che ha scritto Courtney anni fa è vergognoso. Ma si è scusata pubblicamente e ha mostrato di aver compreso l’errore. Siamo sicuri, e lei stessa lo ha confermato, che il suo pensiero, adesso, è totalmente diverso da quello di 10 anni fa”.

Forse una spiegazione si può trovare tornando alla questione Nastase/Cirstea. Ecco infatti come la nostra Courtney, solo un mese fa maneggiava la questione:

“Per favore, non utilizzate questo incidente per giudicare un intero paese o un intero popolo. Ogni rumeno che ho incontrato è straordinario. Aggiungo che chi segue il tennis capisce le complessità culturali che esistono in questo sport nei confronti delle donne. Ho una laurea specialistica in Scienze Politiche e Sociologia. Quando sono in giro per il mondo, discuto di questi temi basati sulle scienze sociale per capirli. Loro [i romeni] dicono molte cose che io, che vengo da San Francisco, trovo retrograde. Ma capisco da dove arrivano. È importante”.

È difficile capire cosa sia peggio in questa sequenza di tweet. Partendo da una posizione perfettamente condivisibile (non utilizzate questo incidente per giudicare un intero paese) Nguyen infila una serie di perle come “ogni rumeno che ho incontrato è straordinario” (pare di capire che se ne avesse incontrato uno maleducato il giudizio sarebbe stato diverso); “ho una laurea specialistica in Scienze Politiche e Sociologia” (pare di capire che senza di essa sia troppo complicato comprendere le “complessità culturali”, qualsiasi cosa siano; e che, di converso, averla sia garanzia di comprenderle, queste benedette complessità culturali); “loro dicono cose” (par di capire che tutti i rumeni dicano queste cose); “che io, che vengo da San Francisco, trovo retrogade” (par di capire, che se arrivi da Bassano del Grappa o da Bucarest sia impossibile). Con la conclusione rivelatrice: “capisco da dove arrivano”.

Ora, questo “capisco da dove arrivano” è persino peggiore dell’epiteto sessista usato contro la Schiavone. Courtney evidentemente ritiene di trovarsi alla prese con qualcuno che è impossibilitato ad esprimere opinioni diverse perché “arriva” da chissà dove. E non si riferisce ad un determinato contesto sociale. No, si riferisce ad una nazione, e a questo punto forse ad un’intera etnia: i romeni. Che in quanto arrivano da dove arrivano vanno “compresi” pur se retrogadi. Tutti.

Il sessismo inconsapevole non è certo meno pericoloso di quello consapevole. Così come non è meno pericoloso il paternalismo razzista con il quale gli occidentali giustificano una posizione sbagliata (“Cirstea ha sbagliato a dire quella cosa cosa ma io, da statunitense che ha studiato e girato il mondo, capisco perché abbiano questi pensieri retrogradi”). La difesa? Quella classica: “si scherzava”, “ma state esagerando”; “non è razzismo ma”. E chi magari si indigna viene naturalmente investito dalle solite spiritosaggini: siete dei parrucconi, si stava scherzando. Quella frase, pur essendo scritta sette anni fa, quando Nguyen non aveva alcun incarico da difendere, è schifosa e deprecabile. E Nguyen dovrebbe usare quel profilo Twitter che utilizza così appassionatamente mentre Trump fa l’ennesima figuraccia, per scusarsi pubblicamente prima con Schiavone, poi con tutti quelli che si sono sentiti offesi da quell’epiteto riemerso dopo anni passati a prender polvere, e infine con tutti quelli che seguono il tennis e non si sognerebbero mai di chiamare qualcuno “transessuale” per via del suo aspetto. Quello sarebbe un segnale di ricomposizione. L’offesa pubblica va risarcita con delle scuse pubbliche.

E non sarebbe male arrivasse anche una presa di coscienza sul proprio atteggiamento – che non si può definire altro che razzista – nei confronti dei romeni che la porta a credere che se uno di loro sbaglia e l’altro lo giustifica, non è certo perché viviamo in un mondo sessista che ha chiuso un occhio su questioni ben più degradanti, ma è colpa piuttosto del “background culturale retrogrado” romeno.

Nel romanzo La Macchia Umana di Philip Roth, un rispettato professore universitario che ha fatto carriera prendendo decisioni coraggiose e inedite, rinuncia al suo incarico a pochi anni dalla pensione perché accusato di razzismo. È una vicenda sinistra e torbida, specularmente opposta a quella di Courtney, perché a nulla valgono le difese di Coleman Silk, il protagonista del romanzo, per spiegare il significato delle sue parole. È andata molto meglio a Nguyen, insomma, che grazie anche allo spirito del tempo può sempre rifugiarsi e purificarsi nel sacro battistero del “stavo solo scherzando”.

Questa triste vicenda ci ha mostrato ancora un volta – non che ne sentissimo il bisogno – come il sessismo lasci facilmente spazio al paternalismo più becero della cultura occidentale, un paternalismo che non solo si erge a giudice delle altrui idee, ma che si considera in virtù di non si sa quale statura morale congenitamente superiore alle altre culture. Che ridere.

Francesca Schiavone Razzismo


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