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Una settimana da dio

Oggi cominciano le ATP Finals. Nove anni fa Nikolay Davydenko decise che gli altri non erano alla sua altezza.

Oggi cominciano le ATP Finals. Nove anni fa Nikolay Davydenko decise che gli altri non erano alla sua altezza.

Poco prima che iniziassero le ATP World Tour Finals del 2009, tornate in Europa dopo 8 anni di vagabondaggio tra Stati Uniti e Cina, era difficile individuare con certezza i favoriti. Il primo a qualificarsi per l’ultimo torneo dell’anno era stato Rafael Nadal, che aveva iniziato la stagione come meglio non poteva, chiudendo il Career Grand Slam a Melbourne e raggiungendo la finale in 7 dei primi 9 tornei a cui aveva partecipato. Al decimo torneo, il suo preferito, arrivò però la sconfitta più clamorosa della sua carriera e da lì il 2009 di Nadal prese una direzione inaspettata: mentre il suo rivale sorpassava Sampras nel conto degli Slam vinti, lui sembrava diventato incapace di battere i migliori. In molti ricordano il suo ritiro a Wimbledon a tabellone già compilato, ma quello fu in pratica l’unico torneo saltato da Nadal: dopo la sconfitta con Söderling a Parigi, lo spagnolo giocò altri sei tornei prima delle Finals, arrivando in semifinale per cinque volte, ma senza mai alzare il trofeo.

Era quindi Federer, il nuovo numero 1 del mondo, quello su cui erano puntati gli occhi di tutti, anche se la sconfitta nella finale degli US Open aveva fatto salire le chance del giovane argentino dal dritto spaventoso, Juan Martín del Potro: per lui si trattava della seconda partecipazione alle Finals – era la prima invece per Fernando Verdasco e Robin Söderling – ma le numerose sconfitte nel post-sbronza newyorkese avevano ridimensionato le aspettative. Completavano il quadro dei qualificati i soliti Murray e Djokovic, che quell’anno avevano raggiunto una sola semifinale Slam a testa ma che due su tre, nei Masters 1000 arrivavano sempre in fondo. Infine c’era Nikolay Davydenko, che nell’edizione precedente era arrivato in finale e che si era qualificato grazie ad un autunno molto positivo, durante il quale aveva vinto due tornei, tra cui il Masters 1000 di Shanghai.

Il 2009 era stato un anno particolare per il russo, che assieme a Roddick – qualificato al Masters, ma infortunato – era uno dei pochi coetanei di Federer capaci ancora di giocarsela con lui. Per la prima volta dopo quattro anni, Davydenko era uscito dai primi 10 del mondo, negli Slam aveva subìto due sconfitte da Söderling, nei Masters 1000, prima della vittoria a Shanghai, aveva sempre perso prima delle semifinali. Difficile puntare più di qualche soldo su di lui insomma, perché era ormai evidente che il russo non sarebbe mai stato un vincente e, per di più, la brillantezza fisica si stava ormai appannando: il suo vero punto di forza, un footwork che ha pochi paragoni nella storia, lo stava irrimediabilmente abbandonando.

Davydenko è uno dei pochissimi tennisti ad avere un head-to-head positivo nei confronti di Nadal: 6-5.

Quando vennero sorteggiati i gironi, in pochi tenevano davvero in considerazione Davydenko: si dicevano che avrebbe vinto uno tra Federer e Djokovic – il serbo, oltre a essere il campione in carica, aveva giocato benissimo in autunno vincendo a Pechino, Basilea e Parigi Bercy -, che del Potro e Murray avrebbero potuto dire la loro, che Nadal magari stava meglio, e allora chissà… Davydenko era associato ai due esordienti, Verdasco e Söderling, considerati degli attori di seconda fascia che avrebbero fatto da sparring partner in attesa delle partite vere. Il sorteggio del tabellone non fu né positivo né negativo per il russo: evitò Federer ma non Djokovic, non pescò del Potro ma Söderling sì. Era difficile pronosticare chi avrebbe passato il turno tra Nadal, Djokovic, Davydenko e Söderling, ma tutti sembravano d’accordo che il serbo si sarebbe preso il primo posto e che gli altri tre si sarebbero giocati lo slot rimanente.

Le ATP Finals di Nikolay Davydenko iniziarono proprio contro Djokovic, ossia con la rivincita della finale dell’anno passato: il serbo aveva vinto 6-1 7-5, e tranne una piccola esitazione a metà secondo set, aveva dominato il match coprendo il campo meglio dell’avversario e cambiando l’equilibrio degli scambi con dei lungolinea più efficaci e precisi. L’ultimo match tra i due, però, l’aveva vinto però Davydenko in semifinale a Shanghai, 7-6 al terzo, per giunta in rimonta. A Londra fu Djokovic a partire meglio, ma il primo break fu di Davydenko: il campo dell’O2 Arena, non particolarmente veloce e con dei rimbalzi piuttosto alti, sembrava tagliato sulle sue caratteristiche. Il cemento londinese favoriva l’anticipo più che la potenza, e in quanto ad anticipo Davydenko non era certo secondo a qualcuno. Inoltre il Djokovic di allora non era quello che conosciamo oggi, e il break subìto a 0 a metà set ne condizionò il rendimento: Davydenko non dovette far altro che applicare il suo tennis metodico per chiudere il primo set senza patimenti, concludendolo con una spettacolare risposta vincente, talmente sorprendente da prendere in contropiede non solo Djokovic, ma pure il pubblico, che a malapena applaudì un colpo solo all’apparenza fortunato.

La carriera di Davydenko è piena di rimpianti: un po’ perché ha giocato il miglior tennis della sua vita quando lo stavano facendo anche Federer e Nadal, un po’ perché il suo gioco leggero e geometrico lo costringeva a prendere dei rischi che gli altri potevano permettersi di evitare, un po’ per dei limiti mentali che l’hanno sempre fermato sul più bello. In quella partita con Djokovic, che dopo tutto era un match di round robin, Davydenko avrebbe potuto giocare con la mente più rilassata rispetto ad un match da dentro o fuori, eppure bastò un game storto – un nastro sfortunato e un dritto fuori di pochi millimetri – per fargli perdere il secondo set. Perso il servizio a inizio terzo set e salvato con un po’ di fortuna il terzo game, nessuno scommetteva più su Davydenko: nessuno tranne lui, evidentemente, che dopo aver fallito l’assalto sul 3-2 e sul 4-3, riuscì a portare il punteggio in parità all’ultima occasione, con il suo signature shot, un rovescio lungolinea anticipato al termine di uno scambio durissimo.

«So di aver mostrato del buon tennis. Ho giocato benissimo, ma ho perso. Però ho ancora delle chance. Sono fiducioso, forse un po’ deluso. Vedremo quello che accadrà»

Sarebbe quasi meglio non raccontare come andarono i due game successivi, persi da Davydenko senza un motivo apparente, 8 punti giocati malissimo contro un avversario che era ancora molto instabile e che probabilmente era solo in attesa del colpo di grazia. «So di aver mostrato del buon tennis. Ho giocato benissimo, ma ho perso. Però ho ancora delle chance. Sono fiducioso, forse un po’ deluso. Vedremo quello che accadrà». Di poche parole, Davydenko era difficilmente decifrabile: erano parole di circostanza, dopo una cocente delusione, o l’aver giocato bene gli bastava davvero per giocare con fiducia i match con Nadal e Söderling?

Lo scambio di maglie a fine partita, durata due ore e tre quarti.

Aveva ragione a essere ottimista, Davydenko, perché il Nadal che si presentò a Londra quell’anno, così come altre volte, non era nelle condizioni fisiche per giocare tre match contro i top 10 su una superficie così poco adatta alle sue caratteristiche, per quanto lenta fosse. E così Davydenko lo sconfisse con facilità per la quarta volta in carriera. Il terzo match lo vedeva opposto a Söderling, che aveva battuto Djokovic in due set ed era già qualificato. Giocarsi la qualificazione con lui non era la migliore delle situazioni, viste le tre sconfitte su quattro subite dallo svedese, ma nemmeno lo scenario peggiore, perché a Djokovic non bastava la vittoria contro il già eliminato Nadal: doveva anche sperare in una terza vittoria di Söderling nel round robin.

Dopo dodici game senza break, i due arrivarono al tie-break. Sotto di un minibreak, la partita sembrava mettersi male per Davydenko, ma fu in quel momento che avvenne la prima svolta del suo torneo: intoccabile, o quasi, al servizio, lo svedese commise due errori di fila e al momento di chiudere il russo non tremò. Vinse per 7-4 il tie-break, e a quel punto gli bastava vincere solo un set per arrivare in semifinale assieme al suo avversario, eliminando così Djokovic dal torneo. Sul 4-4 del secondo, però, esattamente come successo con Djokovic, il tennis di Davydenko si inceppò all’improvviso, costringendolo ad un altro faticoso terzo set contro un avversario forse poco motivato ma che non aveva ancora perso il servizio. La terza svolta di quella partita arrivò al sesto game, quando Söderling cedette il servizio a 0 perdendo la misura del dritto e dando al russo il vantaggio psicologico di cui aveva bisogno. Chiuse 6-3 con un punto à la Davydenko, anche se fu decisivo un dritto a campo aperto che Söderling mandò ben oltre il corridoio.

La semifinale contro Federer lasciava poche speranze: 12 sconfitte, 4 set vinti, l’ultimo dei quali risalente agli Australian Open 2006, quasi quattro anni prima. «Non è che arrivo a giocare e già penso che perderò», disse con uno di quei sorrisi freddi a chi gli domandava se credesse di poter finalmente battere lo svizzero. «Magari io giocherò un po’ meglio e lui no. Vedremo. Ho giocato tre ottimi match, domani vorrei giocare allo stesso modo, spero di correre bene, di essere veloce, e di non commettere errori».

L’ATP programmò la semifinale tra Federer, che aveva avuto un giorno di riposo, e Davydenko, che aveva chiuso la sessione serale il giorno prima, alle 14: un ulteriore elemento di svantaggio per il russo, che ovviamente aveva bisogno di essere brillante dal punto di vista fisico per poter mettere in difficoltà uno come Federer, che spesso lo aveva sovrastato con delle partenze prepotenti. Quello del 2009 non era comunque il miglior Federer mai visto alle Finals: dopo aver battuto in tre set Verdasco e Murray, lo svizzero aveva perso contro del Potro, che aveva bisogno della vittoria per qualificarsi a discapito di Murray. I precedenti e il tipo di gioco di Davydenko, comunque, gli davano un margine sufficiente per considerarsi il favorito: l’eliminazione di Djokovic, poi, gli aveva levato di torno un avversario pericoloso e già tutti pregustavano una finale con del Potro.

Davydenko ha incontrato Federer in uno Slam 6 volte, 3 delle quali in semifinale, perdendoci sempre.

A sorpresa, le cose si misero sùbito bene per Davydenko, che approfittò di un Federer impreciso per andare avanti di due break. Nei tre match di round robin, il russo aveva mostrato un’inusuale propensione per le discese a rete, e anche se la tecnica delle volée non era delle più gradevoli dal punto di vista estetico, in quei colpi Davydenko riusciva a risultare sempre efficace. Federer riuscì a recuperare un break, ma perse ancora una volta il servizio, per la terza volta in quattro turni; Davydenko si prese così il primo set, era la prima volta nei loro tredici incontri.

Ma Nikolaj Vladimirovič Davydenko non sarebbe stato Nikolaj Vladimirovič Davydenko – e Roger Federer non sarebbe stato Roger Federer, certo – se gli fosse bastato vincere il primo set per portare a casa la partita. Come nei match contro Djokovic e Söderling, fu il quinto turno di servizio a costargli il secondo set: nel round robin l’aveva giocato sul 4-4, concendendosi almeno la chance del controbreak, questa volta perse il servizio quando si trovava sotto 5-4. A quel punto non c’erano più dubbi sul favorito, anche perché Federer non aveva più concesso palle break dopo quel disastroso primo set, anzi: ormai concedeva solo qualche sporadico punto quando batteva. Dal canto suo, Davydenko poteva contare sul fatto che i due set erano filati via piuttosto velocemente e, anche se le gambe cominciavano a risentire delle fatiche degli ultimi giorni, si vedeva che aveva ancora energie per dire la sua.

Sul 5-4, Davydenko va a servire per restare nel match. Sotto 0-15, serve una seconda. Opta naturalmente per la seconda in kick sul rovescio di Federer, ma la palla è lenta e nemmeno troppo angolata. Federer, che ha letto in anticipo le intenzioni dell’avversario, si muove velocemente a sinistra e fa partire un dritto potente e profondo, Davydenko però si raccoglie e gioca in controbalzo un bel dritto incrociato che costringe Federer a un difficile recupero. Davydenko capisce che deve andare in rete, gioca un difficile rovescio al volo da metà campo e sul lob di Federer gioca uno smash che pare definitivo. Pare, perché Federer fa una delle sue magie, aggancia lo smash con un controsmash e naturalmente vince il punto.

Tuttavia, quel punto strepitoso, molto simile a un altro vinto contro Roddick a Basilea, non bastò a Federer: Davydenko riuscì a restare attaccato al match e nel game successivo, sul 5-5, tirò fuori il meglio che aveva per togliere il servizio a Federer. Con una risposta di rovescio anticipata, su una seconda in kick che poteva dargli molto fastidio vista la sua statura, Davydenko trovò il vincente che gli diede la possibilità di servire per il match. Sul 6-5 30-30, quando gli mancavano solo due punti per vincere la partita più importante della sua carriera, Federer ne fa un’altra delle sue: con un dritto incrociato carico di top spin manda Davydenko fuori dal campo, il russo può giocare soltanto lungolinea, sperando nel lato più debole dell’avversario, ma Federer gioca un rovescio al controbalzo perfetto. È uno dei punti più belli dell’incontro, ma è anche l’ultimo vinto da Federer: sotto di una palla break, con l’incubo del tie-break che incombeva su una psiche non di certo granitica, Davydenko vinse tre punti di puro coraggio. Quando gioca il dritto inside-in che costringe Federer ad un recupero disperato, probabilmente già sa di aver vinto la partita. La sua reazione, composta e poco appariscente, è seguita da dichiarazioni di orgoglio in conferenza stampa: «Ho fatto quello che tutti mi chiedevano di fare. Tutti quelli che tifano per me, la mia famiglia, aspettavano questo momento, perché ho battuto tutti quelli che sono in top 10, tranne Federer. Sapevo che questo momento sarebbe arrivato, nel 2010, o nel 2011 forse, per cui è una bella sensazione che sia arrivato ora».

A questo punto, mancava solo un altro passo a Davydenko per vincere il titolo più prestigioso della carriera, all’età di 28 anni. L’ottimo score nelle finali – 17 vittorie e 5 sconfitte – e gli head-to-head nei confronti dell’altro finalista, del Potro (2-1 per Davydenko), non erano comunque abbastanza per considerarlo favorito. L’argentino, dopo i tentennamenti autunnali, sembrava aver trovato di nuovo la concentrazione necessaria per applicare il suo tennis senza margini di rischio. Per Davydenko, dopo le vittorie contro Söderling e Federer, c’era un altro avversario tutto servizio e dritto e quindi, dopo le corse dei giorni precedenti, il russo doveva prepararsi per lo stesso programma che aveva messo in conto prima di affrontare Federer: correre molto e sbagliare poco.

La definizione che del Potro diede sulla prestazione di Davydenko, «he played like Play Station», gli rimase appiccicata fino alla fine della sua carriera e molto spesso si paragonarono le sue prestazioni a quella partita, che rimase ineguagliata. Davydenko la vinse in due set, 6-3 6-4 in un’ora e ventiquattro minuti, salvando tre palle break su tre e togliendo il servizio a del Potro una volta per set. Un reporter, a fine partita, ebbe l’imprudenza di chiedere a Davydenko se fosse più orgoglioso della sua vittoria contro Federer o di aver vinto il Masters e lui ebbe la pazienza di spiegargli che l’obiettivo dei tennisti professionisti è vincere i titoli, non battere Federer.

Davydenko chiuse l’anno in top 10 per il quinto anno di fila. Sarà l’ultimo.

La partita di Davydenko nella finale del Masters 2009 è senz’altro una delle migliori partite mai giocate da un tennista diverso dai Fab Four, una quintessenza di precisione, timing, rapidità e intelligenza tattica che in pochi sono riusciti a replicare negli anni a venire. La potenza di del Potro venne facilmente disinnescata dalla sagacia tattica di Davydenko, che scelse accuratamente i momenti in cui scendere a rete e da fondo campo riuscì a inchiodare del Potro sulla diagonale di rovescio, senza mai dargli lo spazio necessario per girarsi sul dritto e prendere il comando dello scambio. Se poi Davydenko aveva il tempo sufficiente, poteva gestire degli angoli semplicemente impossibili per uno dalla gambe lunghe come del Potro.

Durante la settimana londinese, ad un reporter era saltato all’occhio un fatto curioso, e cioè che un tennista che si trovava in top 10 da cinque anni, che giocava le semifinali degli Slam e vinceva i Masters 1000, non aveva un contratto di sponsorizzazione con nessun’azienda che produce racchette. Il contratto di Davydenko con Prince, infatti, era scaduto nel 2008 e non era stato rinnovato. Ma lui, paziente in conferenza stampa come lo era in campo, rispose che quella questione non era così importante. Ora che aveva vinto un torneo di quello spessore, il suo obiettivo era vincere gli Slam: gli sponsor sarebbero arrivati. Ma non era certo per gli sponsor che voleva vincere uno Slam.

Non arriverà mai uno Slam, per Nikolay Davydenko, che non giocherà nemmeno una semifinale dopo le ATP Finals del 2009 e chiuderà la sua carriera ad alti livelli già nel 2010. Dopo il quarto di finale agli Australian Open, perso ancora una volta contro Federer, non raggiungerà più nessun risultato notevole nei tornei principali. Annuncerà il suo ritiro nel 2014, dopo varie stagioni anonime. Il suo addio al tennis arriverà qualche mese dopo la sua ultima partita, un primo turno perso nettamente contro Robin Haase al Roland Garros. Con quel tipo di tennis, e con quel fisico, in effetti non c’era da aspettarsi qualcosa di diverso. Quattro anni dopo, il russo ha fatto praticamente sparire ogni traccia di sé, ben lontano dai riflettori che probabilmente gli davano solo fastidio quando era uno dei migliori tennisti del pianeta. Probabilmente, all’avvicinarsi di novembre, gli viene ancora voglia di prendere in mano la racchetta per vedere l’effetto che fa. Poi, forse, dà un occhio al tempo là fuori, uno sguardo alla coppa che doveva aprirgli nuove strade, e sospira.

ATP Finals 2009 Nikolay Davydenko


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