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Fab 1

Si ritira Andy Murray, il migliore.

Si ritira Andy Murray, il migliore.

Ora che il cavaliere dell’ordine dell’impero britannico, sir Andrew Barron Murray, ha detto che può andar bene così, che quello che doveva succedere è già successo, sarà più semplice capire perché non si vive di soli Slam e perché ci si invaghisce di giocatori che non collezionano record come i dongiovanni da strapazzo collezionano donne, senza mai rispettarle. Del resto, se nel tennis c’era uno dal quale sentire qualcosa di diverso dalle insopportabili banalità conservatrici, uno disinteressato a farsi amare più di tutti, questo era il dinoccolato e talentuosissimo scozzese, che si trascinava in campo come se fosse vittima di tutti gli acciacchi del mondo e che fuori dal campo non pareva sentisse mai la necessità di ingraziarsi qualcuno. Eppure, in quell’isolaccia dall’altra parte della Manica ci hanno provato anche con lui a farlo impazzire, a caricarlo delle ridicole attese di chi pensa che esista qualcosa di imbecille come l’orgoglio nazionale e che questo dipenda da quattro palline ed una racchetta in un campo verde.

Murray, posto che abbia sentito una qualche pressione, ha sempre mostrato un’enorme e distaccata eleganza da queste misere pretese, e quando ha vinto Wimbledon, la prima cosa che gli è venuta in testa è stata che aveva sognato di giocare la finale contro Kudla o Stepanek, tanto gli sembrava strano tutto quanto. Fu una delle poche volte che ha parlato di stress, del resto quell’ultimo game contro Djokovic ha racchiuso un’intera carriera: il talento infinito, le corse a recuperare l’irrecuperabile, le ingenuità e le distrazioni, l’incertezza di chi si chiede se ne valga davvero la pena. Nell’esultanza incredula prima ancora che commossa, la stessa di quella di nove mesi prima a New York, c’era tutta la differenza tra le infinite lacrime, le distese sulla terra, le magliette strappate degli altri, dei dongiovanni del tennis e la compostezza che ha reso Murray uno capace di dire serenamente che «it’s not the end of the world to lose».

Ma come spiegarlo ad un mondo che definisce “survived” chi vince una partita?

Prendere posizioni sconvenienti in un mondo dominato dall’ipocrisia come il tennis, e più in generale lo sport professionistico, non è mai stato un grande problema per Murray. Quando qualche collega dei Fab Four ancora pensava di meritare più soldi rispetto alle donne perché riempiva di più gli stadi, Andy era già a favore dell’equal pay, accogliendo con plauso i tornei che pian piano entravano nel modernismo della civiltà uniformando i montepremi fra uomini e donne. Lui non si vergognava di certo a definirsi femminista, e del resto era l’unico giocatore maschio ad appoggiare queste cause, lontano dal “dobbiamo riflettere serenamente sulla questione” che era solo un modo per dire che le femmine devono stare al loro posto.

“Non penso che esista una giocatrice donna che non sia totalmente d’accordo con Andy Murray”

Serena Williams

Oppure quando, nel 2014, scelse di farsi allenare da Amelie Mauresmo, ex tennista francese, gay e madre. «Lei è una donna, non può capire il gioco dei maschi», gli scrivevano, e lui, cresciuto (anche) tennisticamente da sua madre, rispondeva: «Allora come fa un uomo a capire il gioco di una donna?». E un ex giocatore che era già diventato coach gli scrisse di essere compiaciuto dal «gioco che stai facendo con la stampa, forse domani potresti annunciare che il tuo nuovo allenatore sarà un cane». Murray si limitò a sottolineare in un understatement tutto british che il numero di critiche per quella scelta fu spropositato, che le sue sconfitte con Mauresmo nel box non erano colpa della francese, erano colpa sua.

Lui è stato sempre uno dei miei preferiti, penso che il suo ritiro sarà una gran perdita per il tennis in generale, ma anche per la WTA. Perché ancora oggi, quando pensiamo che ci sia parità di genere, abbiamo bisogno di uomini che parlano in favore delle donne

Andrea Pektovic
3 Slam, 14 Master 1000, 2 Olimpiadi, 45 titoli totali e il numero 1 del mondo a fine 2016.

Quando Margareth Court, cui è intitolata un’arena del complesso che ospita gli Australian Open, disse che non avrebbe più usato aerei della Qantas («quando sarà possibile») perché la compagnia non aveva nessun problema al riguardo dei matrimoni fra persone dello stesso sesso, pensate un po’, lui ribadì la rivoluzionaria ovvietà di chi oltre a vedere il mondo si è sforzato anche di comprenderlo.

Non vedo perché qualcuno dovrebbe avere un problema se due persone si amano o vogliono sposarsi. Che siano due uomini o due donne, it’s great. Non vedo perché dovrebbe essere importante. Non è un affare che riguardi altri. Tutti dovrebbero avere gli stessi diritti.

Andy Murray

E quando l’Inghilterra cercava in tutti i modi di mettere il cappello sulle sue vittorie, primo vincitore Slam dall’epoca di Fred Perry, poi con la vittoria alle Olimpiadi di Londra 2012 e di Wimbledon nel 2013, storico alfiere della Coppa Davis vinta nel 2015 praticamente da solo, Murray non ebbe timore a supportare gli scissionisti scozzesi nel referendum del 2014. «Let’s do this», tuittò, aggiungendo: «Se la Scozia diventerà indipendente, immagino che giocherò per i colori scozzesi». Venne, ovviamente, molto criticato, tanto che qualcuno arrivò persino a rammaricarsi che Murray fosse scampato alla strage di Dunblane del 1996, una sparatoria nella sua scuola dalla quale sopravvisse, un episodio di cui lo scozzese non ha mai parlato volentieri.

Ma d’altronde, parliamo di uno che quando è diventato padre, ha dichiarato: «A cosa mi serve vincere tanti Slam se poi mia figlia da grande racconterà agli amici che non ero mai a casa?».

Anche per questo Murray non tornerà: non ha pause annuali da prendersi per poi ricacciarsi in un tunnel assurdo di rincorse, alberghi, conferenze. Non si era fermato per ritemprarsi ma più banalmente perché stava davvero male. E se stai male capita che non tu non abbia più voglia che risucceda, soprattutto se sei abituato a pensare ad altro oltre al gioco. Non è detto che mancherà al tennis, sicuramente non mancherà a chi crede che la vita, il mondo, sia solo un’assurda competizione e che la sua mancanza di senso possa essere riempita, sanata da una vittoria, un’altra, da un record.

Quello che lascia Andy diventerà però peggiore, in un mondo che trova divertente chi manifesta pensieri che erano già reazionari nei paesini di una qualsiasi provincia degli anni ’50. Ma sarebbe stato troppo chiedere a Murray di essere un argine, di non lasciare da soli gente come Nick Kyrgios, troppo intelligenti per vincere chissà quanti tornei. Quando il vero Ronaldo vinse la coppa del mondo con il Brasile disse: «il dolore è il mio compagno». Andy Murray ha altre, e migliori, frequentazioni.

Questa volta siamo noi che beviamo alla tua, Andy.

Andy Murray


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