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Questione di classe

Al torneo non serve saper giocare bene a tennis.

Al torneo non serve saper giocare bene a tennis.

Sul primo matchpoint, con la testa oramai libera dai pensieri e già proiettata a cercare il colpevole di una sconfitta imminente, ho tirato un vincente di dritto. Il suo back di rovescio era lungo e basso, ma io ho girato “intorno alla palla”, avete presente quando i campioni si allenano e prima di colpire fanno un giro intorno ad un conetto? Ecco, uguale: la palla velocissima ha colpito la riga, imprendibile. “Bravo”, mi ha detto. 

Il mio torneo è finito nel punto seguente, quando ho risposto in maniera goffa ad una sua prima palla robusta, le nostre racchette si sono incrociate a rete e io mi sono diretto a testa bassa verso il mio box, una sedia di plastica da quattro soldi. L’ho “riempita” con il mio corpo, abbandonato in preda ad una stanchezza più pesante di quanto fosse in realtà. Le gambe doloranti, il sudore copioso anche se le dieci di sera erano passate da un po’: dopo due ore la mia seconda partita del primo torneo dell’anno era finita. 

Avevo esordito due giorni prima contro un pischello. In verità era maggiorenne, ma forse definirlo già ragazzo, considerato quanto sono vecchio io, è ingeneroso. Gli ho chiesto l’età quando ci siamo fermati in attesa del giudice per decidere su una palla che io avevo chiamato fuori e che lui riteneva buona. Dopo il mio “No” aveva scavalcato la rete senza problemi, tanto era alto, per poi vociare un “per me è buona”, con quel tono baritonale tipico dei pischelli in età da sviluppo. Il giudice ci ha messo un po’ ad arrivare, forse stava vedendo la Lazio, dopo averci pensato un po’ ha dato il punto a lui. Eravamo a inizio del secondo set, lui era in vantaggio di un game, io avevo vinto il primo set.

Avevo iniziato bene, infatti, sùbito palle break nel primo, interminabile game, poi perso, ma poi sono andato sul 4-1 facendo valere la mia maggior qualità. Questi giovani hanno forza, corsa, ma i loro colpi sono tutti uguali fra loro, basta fargli un rovescio lungolinea per sorprenderli e farli impappinare. Nessuno di loro tira in quella zona di campo a due mani, figurarsi a una mano come me. Sciupo un setpoint sul 5-1, perdo male il game quando servo sul 5-2 ma vinco facilmente per 6-3. 

Inconsapevolmente, dopo un ottimo inizio, mi ero messo a fare il compitino, sicuro che bastasse a vincere. E quindi il mio diritto non era più lungo e pesante come prima, mi accorgevo che tendevo a interrompere il movimento dopo l’impatto invece di continuare con un poderoso finale in avanti. Tipico di chi fa il minimo, come facevo a scuola. Braccino? Un po’. Lui aveva preso coraggio, il suo dritto era spesso imprendibile, col rovescio conteneva e poi serviva molto bene.

Ecco, rispondere al suo servizio è stata la cosa più difficile del primo turno. Lui è molto alto, almeno un metro e ottantacinque, quindi aveva sempre un’ottima percentuale di prime in campo. Ma più che la forza o la costanza del suo servizio, a impedirmi di rispondere decentemente era il campo. Dietro questo c’era il parcheggio del circolo, dietro il parcheggio c’era la strada e su questa un concessionario d’auto con l’insegna gigante accesa H24. Quando lanciava la palla, questa si perdeva fra le lettere di questa insegna, io vedevo la pallina quando già era in viaggio verso di me, avevo meno tempo e quindi sbagliavo. Valeva anche per lui quando servivo da quel lato ma era comunque frustrante. Non che fosse meglio dall’altra parte del campo, stessa cosa ma con le luci del calcetto. A una certa ora poi si è messo a suonare anche l’allarme antifurto di qualcosa. Avrà suonato per un’ora intera a intervalli regolari. I rumori del tennis non c’erano più.

Avevamo iniziato alle otto a giocare, il sole era delizioso (uhm) e si giocava perfettamente, cosa rara in quel circolo. La terra era pure soffice, il giudice mi aveva dato le palle nuove senza neanche essere un tesserato Gold (!). Gioco sempre bene con le palline nuove, la mia palla esce veloce dalle corde e rimbalza alta. 

Rimango in scia, sotto per 2-1 con lui al servizio, ma poi perdo il game del 3-1. Sul 4-1 decido praticamente di mollare quel set tirando a caso. “Giochiamoci ‘sto terzo set”, mi dico, mentre sento affiorare la stanchezza. Preoccupato? Un po’, ma ho ancora energie. Più che altro devo smetterla di giocare al minimo del gas. Così perderò, ho già perso il secondo set. Pare facile, comunque, provare a giocare con la mente libera. 

Inizio però con un piglio deciso, cerco sempre il punto con la prima al servizio, non voglio dare l’idea di cercare di metterla nel quadrato e basta. Da fondo rispondo con solidità, ho capito che devo andare un paio di metri dietro la linea per avere tempo di giocare, però devo colpire molto lungo e con molta energia. Sta funzionando, faccio il break, lo confermo, sono avanti tre a zero. Continuo così, più che altro lui non reagisce, sembra che gli stia bene così. Ci sono i suoi genitori a guardarlo, ma quando vado sul quattro a zero se ne vanno. Lo faceva anche mio padre quando seguiva i match di mio fratello, il tennista forte di casa. Io lo odiavo. Come puoi abbandonare un figlio al campo nel momento di difficoltà? Cioè lo hai seguito per un’ora e mezza e lo lasci negli ultimi venti minuti perché sta perdendo? 

Ovviamente l’avversario ha mollato ancora di più. Ha vinto un game perché gli sono entrati tutti i colpi che ha tirato ma poi mi ha salutato frettolosamente dopo il 6-1 finale. Racconto a mia moglie questo episodio mentre guarda il telefono, ovviamente non mi sta ascoltando, se intuisce che è roba di tennis di solito è così. Si gira perché l’algoritmo del suo cervello le notifica un post sulla genitorialità, per quanto perversa essendo legata al tennis e quindi esecrabile, forse poco meno della pedofilia. Della mia partita proprio non le frega nulla. “Mò perché a nostro figlio non interessa il tennis, ma qualunque sport dovesse fare agonisticamente io sarei sempre li a vederlo e prima del match gli direi solo questo: vai e divertiti”. Mi mette like.  

Il giorno dopo mi alzo e fisicamente mi sento decomposto. Sono andato a dormire tardi, colpa dell’adrenalina, mi fa male ogni muscolo del corpo. Sarà la tensione. Fortunatamente non sono in orario per giocare di nuovo. Mi viene un’idea di merda, tipo di allenarmi un po’, convinto che ho giocato male ed è per quello ho perso un set. Come no. Sopraggiunge il senno che mi suggerisce total relax, che non si perde al torneo perché il dato della rotazione del topspin è in calo rispetto alle settimane precedenti pur avendo eseguito più dritti del solito. 

Inquinamento visivo livello top di gamma

E quando affronto questo terza categoria piuttosto forte, dritto e rovescio filano via in bella scioltezza, la prima palla mi procura spesso punti diretti. Lui però ribatte bene, gioca in maniera molto ordinata. Stilisticamente chiude bene il movimento del dritto con un braccio fin troppo proteso in avanti, scuola classica. Carica il rovescio a due mani ma non è un colpo sicuro, si capisce subito. I colpi che non sono naturali difficilmente diventano affidabili, specie in torneo. Ad un tratto sono folgorato: gioca come Berdych, batte anche bene e chiude le volée che vanno chiuse. 

Perdo il primo game del match con lui che serve sotto per 0-40. Sarebbe già da bestemmiare. Ma io sono calmo e rilassato, lui ha la classifica migliore quindi io non ho niente da perdere, no? Sarebbe così. Ma se non batto quelli meglio di me quando miglioro la classifica? Eh eh. Sul 2-2 faccio il break. Vedo diminuire la sua sicurezza, il piglio del giocatore forte con il quale aveva iniziato il match. Gioco alcuni punti che non sono di quella categoria. È una cosa arrogante da dire, lo so, ma durante le pause guardo tutti i match sui campi adiacenti, giovani virgulti intenti a squarciare la palla con i loro dritti e rovesci che sembrano fotocopiati, quei movimenti fluidi di chi colpisce migliaia di palla la settimana, quelle traiettorie che sai sempre dove intercettarle. 

Difendo i miei turni di battuta con l’autorità di un Bolsonaro, sono in pieno controllo del match, l’avversario inizia a essere frustrato. Vado sul 5-3, serve lui, voglio vincere questo game. Vado in vantaggio per 0-30, ma lui recupera. Forse aveva visto la fine del set e ha lasciato andare il braccio. Gli sono rimaste tutte dentro, maledetto. Cambio campo, poi mi tocca chiudere ‘sto set. Non arrivo neanche a 30. Faccio sùbito un doppio fallo, il primo del match. Sbaglio un rovescio, forse era un dritto ma poco importa. Dopo un minuto siamo sul 5-5. Paura? Boh, eppure io pensavo di stare bene, rilassato, ma un dritto non è arrivato manco alla rete a momenti; inconsciamente mi sono contratto, per forza, non c’è altra spiegazione. Anche perché faccio nuovamente il break, vado sul 6 a 5 con merito, poi vabbè mi dice culo sul 30-40 quando un mio rovescio colpisce il net e la palla passeggia sul nastro manco fosse la pedonale del Pigneto per cadere dalle sue parti. Dettagli. 

Ben centrato quello striscione, ottimo.

Mi è venuto a vedere un mio sparring partner, uno che conosce anche il mio avversario. Mi dà un saggio consiglio: “Fai partire lo scambio, non cercare subito di affrettare la chiusura, fai partire lo scambio. Tanto poi a limite c’è il tie-break”. Tutto giusto, sottoscriverei col sangue ma non mi va di sporcare, sono d’accordo: lo sarà anche il mio braccio? Quanto vorrei che giocasse da solo senza darmi retta. 

Il game è analogo al precedente, non arrivo a 30 di nuovo, sarebbe di nuovo da bestemmiare, penso di averlo fatto e anche largamente, però c’è ancora il tie-break, no? Aspettiamo a smattare, dai. Nella mia testa aleggia l’idea che perderò, mi impegno a scacciare via questo pensiero ma non c’è niente da fare. Cerco di giocare ogni singolo punto provando a non tenere conto del punteggio, ma non funziona: reggo fino al 3 pari, poi vado a rete seguendo un dritto centrale (!) e sbaglio qualche risposta. Il 7-3 è tanto inevitabile quanto giusto. 

Il mio amico abbandona, ma a differenza del genitore del mio avversario di primo turno mi saluta prima, mi chiede se ho le forze per cercare di recuperare visto che il primo set è durato un’ora e mezza. “Non lo so”, gli dico. Sento affiorare la stanchezza, le gambe sono improvvisamente pesanti. Lui, il Berdych di periferia, avrà 20 anni meno di me. Se li porta male ma è infinitamente più giovane di me. Ogni volta che perdo queste partite mi faccio sempre la stessa domanda: ma ti sei guardato intorno? Sono tutti giovani, che cazzo ci fa qui a quest’ora? Vai a fare questi cazzo di tornei over! Poi mi ricordo che i tornei over li fanno tutti in quei circoli blasonati e lontani i cui orari sono compatibili con le professioni di avvocati e commercialisti, i professionisti di Roma, o comunque in con chi non fa niente, posto che le due cose divergano. Allora mi ricordo perché sto giocando a due chilometri da casa un torneo aperto a tutti, la terra di conquista di questi maledetti giovani.  

Vinco il primo game del secondo set, ma ad ogni punto non faccio che pensare alle mie gambe. Lui ora gioca libero, perde il game ma lo vedo che sta riacquistando la fiducia. Reggo fino al 2-2, poi il tracollo. Lui accelera, mi sposta sulle diagonali col suo colpo forte, il dritto, e poi mi finisce dall’altra parte. Non c’è niente a cui appellarsi, in mezz’ora arriva a tre matchpoint consecutivi. Tiro quel vincente di cui sopra ma è pura estemporaneità, come quando lasci il biglietto da visita a una che non ti chiamerà mai. Vado a farmi la doccia che è tardi, cazzo non ho lo shampoo in borsa, meno male che incontro un ragazzo gentile. Ha perso pure lui, lo racconta al coach però dice che è soddisfatto perché ha giocato bene. Contento lui, io me ne vado incazzato e quando arrivo a casa trovo parcheggio sotto il balcone. Questa sì che è classe. 


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