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Un infiltrato alla Mirage

Usciti dal torneo, il meglio che puoi sperare è che lo vinca il tuo sparring partner.

Usciti dal torneo, il meglio che puoi sperare è che lo vinca il tuo sparring partner.

Alla Mirage c’è il campo da calciotto più bello di Roma e io una volta c’ho pure segnato un gol. Era una finale di un torneo di calciotto estivo, ricordo che in tribuna c’era pure mia moglie. Sfruttando un inserimento dalla fascia destra di quel campo più largo del normale, una sorta di Camp Nou de noantri, avevo ribattuto in rete una conclusione di un compagno parata dal portiere. Finimmo per perdere il torneo ai rigori. Ma alla Mirage ci avevo giocato a tennis tanti anni prima. Persi pure quella volta.

Era un incontro di serie D a squadre, la pioggia aveva allungato la durata del mio match fra interruzioni e riprese, ero impegnato con un quattordicenne in un match che avrei dovuto vincere facilmente e che, ad un certo punto, mentre mio fratello guidava il compagno alla vittoria del doppio sancendo il 3-1 della vittoria, decisi di mollare. L’avversario vinse la partita della vita, la prima contro un terza categoria; a me che avevo buttato gli ultimi due game perché volevo tornare a casa toccò la sequela dei sacrosanti rimproveri da parte dei miei compagni.

Uscendo dalla tangenziale, su via di Tor di Quinto, se prendi a sinistra la movida ti accoglie dopo qualche centinaio di metri, meglio svoltare a destra imboccando subito dopo una strada dissestata, poco asfaltata e molto buia di notte. Via del Baiardo taglia la fitta vegetazione puntando dritto verso il Tevere, supera circoli più o meno blasonati come il Flaminio, quello della Lazio e poi l’Andrea Doria, giusto prima della Mirage, l’ultimo prima di finire nel Tevere giusto dopo aver passato il ponte della ferrovia Roma-Viterbo, la trasposizione su binari di quella mulattiera chiamata strada.

Sto disertando il torneo di calciotto, non voglio farmi male di nuovo a ridosso dalle vacanze e soprattutto non voglio giocare con ragazzini che oramai potrebbero essere miei figli, perciò mi sono iscritto a questo torneo di terza categoria su suggerimento di Manzo, il mio sparring partner più forte. C’è anche lui in tabellone, abbiamo la stessa classifica solo perché lui non gioca mai i tornei. Quando è uscito il sorteggio ho guardato con attenzione gli accoppiamenti sperando di evitare la sua zona, il computer è stato clemente. “Lo vinci agile ‘sto torneo” gli ho detto il giorno prima del suo esordio. Eravamo a Roma sud, mi stava aiutando a caricare i mobili per un trasloco, aveva rinunciato ad allenarsi per darmi una mano, stancandosi il giorno prima di scendere in campo. Perché Manzo è così, è un bravo cristiano, è uno di quei ragazzi “che nun je poi vole’ male”, quelli che i papà vorrebbero far sposare alle figlie, magari solo perché biondi con gli occhi azzurri e poi invece vai a sapere, ma Manzo sembra proprio uno affidabile.

Il giorno in cui avrebbe dovuto giocare, Manzo mi scrive dicendomi che il suo avversario non si è presentato. Mi sento sollevato. Mi chiede però, sempre con la solita gentilezza, di allenarci. Io stavo ancora spostando cose, mollo tutto e dopo un quarto d’ora siamo al circolo a tirare pallate. Ha un piglio diverso dal solito, tira più forte, gli sta tutto dentro, non è distratto. “Ammazza stai giocando benissimo” gli dico durante una pausa, lui: “No macché, è solo che sto in clima torneo”. Click, ha cambiato mentalità.

Il giorno dopo va in campo, gioca contro un 3.2 e vince per 6-3 6-0. “Mi fanno ancora male i bicipiti” mi scrive, però aggiunge che “tanto non servono per giocare a tennis”. Poi tocca finalmente a me, il giudice mi programma pure nel tardo pomeriggio. Il campo è completamente ombrato, il circolo ne ha quattro allineati alla base di querce secolari e alle sette di una sera del caldo luglio romano non vorrei essere altrove. Solo che il campo fa schifo. La rete è bucata, quando lo faccio notare al tipo dei campi arriva e la rappezza con le fascette da elettricista, il manto poi sembra via del Baiardo con una spruzzata di terra rossa sopra, vabbè che siamo tennisti di periferia ma insomma.

Lui è un ragazzo giovane e alto, quando vado per dargli il pugnetto mi apre la mano senza problemi, stringo forte. Non gioca male, è solido col dritto, batte bene ma soprattutto mette molte prime dentro, sarà per via dell’altezza. Inizio con buona sicurezza, le palline usate che ci ha dato il giudice fanno schifo, sembrano dei sassi vuoti, il campo è avaro di terra e l’annaffiatura è un ricordo dopo pochi game, gli stessi che riesco a giocare in maniera decente. Poi lui inizia a giocare meglio, fa il break e tira dritto fino al 4-3 e servizio. Io sono andato vicino un paio di volte a recuperare, ho fallito palle break ma sono rimasto sempre in scia, avevo sempre quella sensazione che stavo per farcela, che ero lì lì per vincere il game quando batteva lui ma Alessandro riusciva sempre a scamparla. Almeno fino al 4-3, quando sono riuscito a vincere il game grazie a un suo doppio fallo, o forse erano due. Vado sul 5-4 e poi chiudo per 6-4 vincendo ancora il game quando batte lui. Sarebbe quasi ora di cena, io mi preparo mentalmente alla battaglia del secondo set ma lui si ritira, dice che ha fatto molte partite di fila e gli fa male il braccio. Fantastico: alle otto sono a casa.

Il giorno dopo siamo in campo sia io che il Manzo. Io gioco di mattina, contro un diciassettenne alto e con la solita faccia scazzata. Lui è un 3.1, ha un buon ritmo ma io finché reggo sono sopra nel punteggio. Vado un break avanti, addirittura. Solo che quando servo sul 3-2 per me nel primo set, mi accorgo di non avere energie, sembra quasi che la mia palla non cammini più. È passato mezzogiorno da poco, la terra è arida, il sole sta bruciando tutto ciò che riesce a raggiungere, ha sbiadito i colori della Mirage, il verde degli alberi non c’è più, la terra è bianca e serve l’asciugamano dopo ogni 15. Mi rendo conto che per quanto io possa stare allenato, il caldo mi rallenta. Gioco sempre di corsa, rincorrendo la palla, che arriva sempre depotenziata dall’altra parte mentre lui invece, che ha 17 anni, sono quattro mesi che non va a scuola e non ha fatto altro che tennis, figuratevi un po’ voi come poteva stare in campo. Gli basta poco per rifilarmi un ordinario 6-3 6-2. 

Alla sera Manzo incontra un 3.3. Prima di giocare mi aveva scritto con tono titubante. Quando mi riscrive qualche ora dopo leggo che ha vinto 6-2 6-2, dice che ha fatto 10, 12 ace. Ad un torneo di terza 10 ace si contano sommandoli in quasi tutte le partite. Il giorno dopo deve giocare contro un tennista abbastanza noto fra i terza romani, io non l’ho mai visto ma è presente in ogni tabellone che mi capita di leggere, è un over e gioca prevalentemente in backspin. “Che palle, quello fa solo back” scrive Manzo. Io non rispondo mai rincuorandolo, i miei messaggi bullizzano sempre l’avversario. Alle sue preoccupazioni su questo pallettaro over rispondo con una risata e dicendo che quello non farà più di 4 game. Un paio d’ore dopo bippa il telefono: “Vinto 6-1 6-4, mi sono distratto nel secondo”: Manzo è in semifinale.

Ma non potrebbe essere altrimenti. A questo livello di tennis i giocatori più forti sono i ragazzini, quelli che stanno sempre in campo e sono capaci di fare anche due o tre partite in un solo giorno, instancabili portatori sani di gioventù dai colpi ben definiti e gambe che non si rompono mai. Poi ci sono i terza over, pochini, che hanno un ritmo inferiore, e che diventano competitivi se riescono a ingarbugliare il match contro questi giovani. E poi c’è Manzo, neo over 35, ma ancora nel pieno delle forze fisiche. Scatta come un gatto quando c’è da rincorrere la pallina e i suoi fondamentali sono esecuzioni perfette dal punto di vista dell’efficacia e dello stile, sa giocare le volée perfettamente e batte anche bene. Non so se è stato seconda categoria in passato, ma di sicuro quello oggi è il suo rango. Qui fra noi è un infiltrato.

Mi scrive la mattina delle semifinali, dice che il giudice gli ha detto che quella di oggi è la vera finale, perché il suo avversario è molto forte. Percepisco paura. Continuo a rispondergli con le solite risatine denigratorie, ribadendo di dirmi quanti game farà l’avversario. Mi chiede di andarlo a vedere. “Me lo devi” mi scrive. “Vengo solo per la finale ovviamente” gli rispondo. Passa qualche ora: “Manzo c’è, ho vinto 6-4 6-0”.

Il giorno dopo mi libero rapidamente da una chiamata di lavoro piena di milanesi e scappo via alla Mirage. Mi piazzo dietro una di quelle querce, riconosco subito lo stile di Manzo da lontano, sta giocando sul “centrale”, che alla Mirage è forse l’unico campo con una rete senza buchi. Porta una maglietta larga che non tratteggia i muscoli ben definiti, in testa ha la solita fascia tergisudore. Quando vince un punto gli piazzo un “Alé Manzo” per fargli sentire la mia presenza. Ma non sono l’unico arrivato per vederlo trionfare, ci sono anche altri suoi amici, poi arriva il fratello, la moglie, la madre della moglie.

Quando fa il break che lo porta sul 4-2 del primo set, pensiamo che è fatta. Il suo avversario è un 3.1 forte, ma si è messo a sfidare Manzo sul piano della forza. Non è una buona idea, perché Manzo anestetizza le cannonate del giovane con il backspin di rovescio, poi anticipa improvvisamente col dritto lungolinea e attacca in controtempo per chiudere la volée in perfetto stile mentre la gamba destra scivola in maniera controllata davanti. L’occhio è sempre sulla palla, sempre. Manzo ha un tennis completo che non è solo efficace, è anche bello da vedere.

Allora l’avversario, che scemo non è, comincia a giocare palle più lente e lavorate, a Manzo viene un po’ d’ansia, il braccio si contrae, commette qualche doppio fallo visto che sia la prima che la seconda palla sono colpite sempre in slice, passano sempre a filo rete. Perde il break di vantaggio, ma quando va a servire sul 4-3 non trema neanche quando perde il primo 15. Ritrova fiducia, allunga sul 5-3 e poi domina il game successivo. Gli piazza anche una risposta vincente di dritto su una prima che lascia fermo l’avversario e gli prospetta un secondo set sulla stessa falsariga. Chiude per 6-3. Sembra stanco, non è abituato a giocare troppe partite di fila ma non può perdere.

Infatti fa il break anche nel secondo set, al primo game. E comunque il terzo set si gioca sulla distanza del long tiebreak, considerato che i due non giocano mai troppi scambi lunghi da fondo la benzina per un’altra mezz’ora Manzo dovrebbe averla. Allunga sul 2-0, l’avversario prova ancora a cambiare qualcosa ma è un tentativo vano. Quando colpisce un vincente di dritto in lungolinea urla per caricarsi, ma è l’unica cosa che ricordiamo di lui del secondo set. Manzo infatti ha messo il pilota automatico, domina ancor più di prima e il ragazzo si rassegna. Quando vince l’ultimo punto, Manzo alza le braccia. Ha vinto il torneo. 

Sorride di gioia, è felice, ci mettiamo in fila per le congratulazioni. Il giorno dopo mi scrive che è ancora troppo felice della vittoria, che non pensava di vincere il torneo. A me non resta che ridere ancora una volta in chat e ribadirgli: “Te l’avevo detto”. 


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