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Intermezzo 

A Roma ci sono i professionisti in campo, i figliastri del tennis, quelli dei tornei Challenger

A Roma ci sono i professionisti in campo, i figliastri del tennis, quelli dei tornei Challenger

Sul campo dove un mese fa ho perso la semifinale di un torneo, ora sta giocando Felipe Meligeni, brasiliano di poco fuori dai primi 200 tennisti del mondo. Gioca l’ultimo turno delle qualificazioni contro Karlovski, russo più vicino ai 300 che ai 200; Meligeni sa fare qualcosa in più, però è incostante, ha due set point sul 5-2 ma li fallisce, serve sul 5-3 e però non chiude, poi alla fine vince comunque per 6-4 il primo set facendo il break quando serve il russo. Sembra tanto quello che mi è successo in quella semifinale, velocità di palla a parte. 

Si gioca a porte chiuse, il secondo torneo Challenger consecutivo a Roma, di questi tempi basta avere quattro o cinque campi e il cellulare di Gaudenzi, fargli una chiamata e il torneo è presto che organizzato. Sulle piccole tribune romane il coach di Davis Filippo Volandri sistema la maglietta per migliorare l’abbronzatura, ferma al bicipite, mentre guarda da lontano Matteo Gigante, un ragazzetto che ha superato le qualificazioni ma che perde facilmente contro il croato Serdarus, mai visto né sentito prima. 

C’è un bel sole, i giocatori escono dalla bolla dell’albergo per entrare in quella del circolo, almeno ufficialmente, si riscaldano, guardano le partite, ciondolano le gambe, sono tutti in pantaloncini e felpa col cappuccio, sembrano annoiarsi ma non c’è molto di meglio da fare, sono quasi costretti alla socializzazione fra loro. C’è il gruppo dei francesi, molto nutrito, poi quello degli italiani, chiacchierano e ridono cercando di passare l’ennesima lunga giornata uguale a tutte le altre. Riconosciamo Igor Sijsling, olandese che nel 2014, quando era 54 ATP, batté Cecchinato nello stadio Pietrangeli a Roma. Oggi è fuori dai primi 300 ATP, chissà che gli è successo da allora, forse è solo invecchiato. 

Giocare nel verde della desolata campagna romana di fronte a una decina di spettatori è una cosa che dovrebbe mettere in pace i sensi. Almeno così è a guardarli, questi giocatori, lontano dalla ressa, dal rumore, dalle urla. Forse anche loro, che giocano questi tornei Challenger con la consapevolezza di non poter sbagliare, pena un’altra settimana di sofferenza, provano questa sensazione. Non ci sono stadi enormi e desolati a farti pensare a come avresti giocato di fronte al pubblico, contro o a favore; qui le tribune sono due gradini di ferro e sono piene per modo di dire. Che poi: su che altro vuoi concentrarti se non sul tuo tennis? 

Roma da queste parti non è la Roma di cui parlano all’estero. Questi ragazzotti non sono al Foro Italico, in centro, con qualche ora da spendere per vedere qualcosa della città. Qui sono in una bolla di periferia, giocano disturbati dagli aerei che si abbassano per toccare terra qualche chilometro più in là, un rumore che copre il suono del tennis nella campagna romana, il grazioso cinguettio e il fastidioso doppio fra ottuagenari. 

Mentre Sijsling carica il servizio contro Berg, un altro dei colpitori seriali che affollano il circuito, si sente fortissimo un “Aò ma come l’hai presa ‘sta palla?”. Igor si ferma. Riparte. Sembra sconsolato, sa che è così. In tribuna la fidanzata di Karlovski si annoia. Bionda, pelle bianca, vestito rosso e sandalo blu: ha i colori della bandiera russa addosso. Ascolta musica con lo speaker del telefono, si fa spalmare la crema, si atteggia un po’ da star in questo circolo pieno di sportivi maschi. Karlovic sta per servire, “Bone eh? Er primo (doppio fallo) nun se ripete!” arriva dal campo di fianco. 

Matteo Gigante recupera il secondo set da 2-5. Sulle tribune ci saranno una ventina di tifosi, tutti suoi, lo incitano. I “Bella” quando chiude un colpo rivolti dal pubblico anziano sono della stessa caratura di quelli riservati ai match fra soci. Quando Gigante tiene il servizio sul 5-6 e raggiunge il tiebreak del secondo set gli urlano “Adesso!”, come se invece prima fosse bastato meno. L’azzurro perde il tiebreak e il match. 

Giocano un po’ tutti uguali questi ragazzi dei Challenger, un passaggio obbligatorio verso il professionismo più vero, quello dei soldi. Perché anche questi lo sono, professionisti, una vita dedicata al tennis e il telefono come unico compagno di viaggio fisso, a girare per il mondo fra circoli più o meno belli, sperare nelle wild card delle Federazioni, superare le qualificazioni, farsi i conti con i soldi, cercare di capire se ha senso spendere qualcosa per un coach, portarsi un amico all’estero per sentirsi un po’ più sicuri, niente attenzioni particolari, niente autografi, niente giornalisti, eppure sono fra i migliori 300 del mondo in questo sport che giocano milioni di persone. Assurdo. 

A questo livello colpiscono più o meno tutti in maniera perfetta, magari c’è poco spazio per l’inventiva, genialità e classe sono merce rara nell’ATP figuriamoci qui. Quando la vedi, nella forma di Sijsling che chiude un rovescio ad una mano anticipandolo ad uscire e colpendolo ad altezza spalla, capisci che quel giocatore o è di passaggio o è di ritorno. Altrimenti, topspin e corsa ad oltranza, al massimo una smorzata per evitare di annientarsi fisicamente. 

Gioca Giannessi, un italiano a cui ci siamo attaccati nel momento delle vacche magre del tennis maschile quando dominavano le donne. Bolt perde contro Clark. Sono tutti match noiosi, identici, potresti sovrapporre i giocatori e non ti accorgeresti della differenza. C’è anche Zeppieri, un altro che non entusiasma molto nel gioco, sta perdendo sonoramente contro Hugo Dellien, la testa di serie numero due, almeno finché il boliviano non decide di perdere dilapidando un vantaggio di 6-1 2-0 perdendo al terzo.

Hugo lascia il circolo deluso, spingendo il passeggino con un neonato e si incammina verso l’albergo in via Tuscolana, un chilometro più in là del circolo. Si fa vedere Hugo Gaston, intercetta lo sguardo dei curiosi e poi, finita la sessione di allenamento, decide di rimanere al circolo ma al tennis giocato preferisce il padel con tre suoi amici. 

Non sarebbe un Challenger italiano senza Paolo Lorenzi, il veterano, uno che avrà giocato centinaia di queste partite. Gli tocca uno di quasi vent’anni più giovane, Muller, un solido  colpitore francese. Paolo per gioca bene, tiene il campo fino al 4-4 del primo set, è perfetto e metodico nell’alternare pallettoni lenti a volée chiuse in controtempo, situazioni vissute milioni di volte nel Tour perché lui scende sempre a rete quando capisce che è tempo. Cede all’improvviso, non vince più un game. 

I giocatori che arrivano man mano al Garden si sistemano tutti a vedere Thanasi, uno che è chiaramente di passaggio da queste parti. La settimana precedente nella prima edizione del torneo ha giocato anche Tomic, ha superato un turno e poi ha perso malamente. “Non stava giocando bene, non aveva voglia” ci ha detto Ezio Di Matteo, organizzatore del torneo. “E quando ce l’ha, la voglia?” gli rispondiamo. 

Quando Kokkinakis può giocare il dritto caricandolo da terra per saltargli addosso, trasferendo così sulla palla tutto il peso del corpo e forse anche la frustrazione dei tanti infortuni, si capisce subito che lui merita altri campi. D’altronde qualche mese fa a momenti batte Tsitsipas nel quinto set agli Australian Open. 

Thanasi non sembra felice di stare al Garden, il raccattapalle ci mette troppo tempo a dargli la seconda palla quando lui sbaglia la prima. Bofonchia qualcosa in quell’inglese dagli accenti strani che parlano loro, l’arbitro non può far nulla per accontentarlo, si continua con un solo ragazzino a smazzare il lavoro di raccogliere e lanciare palle. 

“Già averne due, di raccattapalle, non è professionale, uno è proprio niente”. Così sentenzia Danilo Petrovic, una testa di serie che si lamenta mentre guarda gli inservienti rifare il campo velocemente dopo che ha vinto un set. C’è solo un ragazzino a “servirlo” in campo quando dovrebbe essere alle elementari. È stanco, questo bimbo, vorrebbe il cambio dopo un set passato a raccogliere palline e riposizionarsi di fianco alla rete, a lanciare palline ai giocatori che puntualmente gli vengono restituite in quel gioco da pro che è dammi la palla-riprenditi la palla. Fanno tenerezza, questi ragazzini, l’arbitro li richiama spesso, perché si dimenticano di raccogliere la palla o non sanno dove mandare le palline al cambio campo.

Ci vorrebbe clemenza dai giocatori ma non tutti ce l’hanno. Sijsling se sbaglia la prima palla di servizio o se quella dell’avversario finisce fuori, raccoglie la pallina e se la mette in tasca. Pellegrino, invece, non si muove neanche se ce l’ha a due metri e, anzi, la indica con la testa della racchetta al piccolo o alla piccola che è in campo. Ad un certo punto, proprio Pellegrino e Napolitano, che si sfidano nel match di primo turno, decidono di fare a meno del ragazzino, che ora siede in tribuna. Qualcuno gli passa un succo di frutta. “Sei stanco?”, gli chiediamo, “Sì, molto” con l’aria esausta. Finalmente può godersi qualche match anche lui. 

Il campione del Garden 1, Pellegrino, gioca mettendo al solito in mostra i bicipiti e li usa tutti per battere la strenua resistenza di Napolitano, un altro di quelli che non ce l’hanno fatta a fare il grande salto. Pellegrino è più forte, ma questo è un derby e allora bisogna sudare molto. Vince Pellegrino, che già si dà troppe arie nonostante sia ancora là a 24 anni. 

La sofferenza che provano questi giocatori, che non possono perdere al primo turno dei tornei importanti, incassare bene e giocare il successivo tanto c’è una sorta di ranking protetto per i migliori, è palpabile. E la cosa che più colpisce è che non c’è clemenza verso di loro. “Sono scarsi”, “Quello ha solo la battuta”, “Quell’altro non sa fare mezza volée”: sono le sentenze dei pochi che guardano i match, soci del club perlopiù, commenti senza appello verso chi non sa fare altro nella vita che giocare a tennis, e che ha fatto solo e solamente quello da sempre. Sono giocatori in ascesa o in declino oppure habitué di questo mondo che magari hanno già giocato in qualche Slam e che cercano di riavvicinarsi alla fatidica quota 100, quella dei figli preferiti. 

E proprio dal penultimo Slam giocato ci sono due protagonisti minori, Lorenzo Giustino e Hugo Gaston. L’azzurro di Napoli si sistema molto attentamente la fascia sui capelli, ha un ciuffo che non deve muoversi mentre carica dritto e rovescio alla stessa maniera, sembra uno spartano tanto è corvino e muscoloso. Il giovane Cobolli si ferma a parlare con lui mentre si prepara. “Come stavi? Avevi i crampi?”. “Male, sì, le gambe distrutte” risponde Giustino, con tono fiero, sembra un po’ Verdone in Troppo Forte quando racconta La palude del Caimano. 

Parlano di quel match del Roland Garros 2020, quello vinto da Lorenzo contro un francese antipatico, Corentin Moutet. “Quant’è finita”, domanda Flavio, “18-16 al quinto”. “Ammazza”. Il napoletano ora gioca contro un peruviano, Varillas, gli sta avanti nel ranking di poco ma Giustino sembra migliore, non è una bella partita. Ma perché, scopriremo poi dopo aver visto una ventina di partite, non ci sono belle partite. La posta in palio è troppo alta, nessuno gioca spensierato come se non avesse niente da perdere, la maniera di giocare poi è praticamente la stessa; e quindi chi guarda si concentra sul gesto tecnico, su come si caricano i colpi, sulla solidità al servizio, sulla capacità di ripetere decine di volte lo stesso colpo sempre alla stessa, identica maniera. 

Il francese di Tolosa invece, riesce a perdere con un arrotino argentino giocando male. Questa volta le smorzate di Gaston entrano meno che contro Thiem quel giorno. I suoi colpi leggeri non danno fastidio all’argentino Andrea Collarini, che ha probabilmente i nonni dalle nostre parti è che sicuramente da fondo campo arrota ogni palla con una cattiveria che fa paura. Hugo non sembra neanche avere tanta voglia, perde chiudendo con un doppio fallo à la Paire, magari non voleva, però vai a sapere.

Intanto perde anche Igor Sijsling, che non sfrutta tre set point per andare al terzo set contro Petrovic. Lo guardiamo mentre infila la felpa e esce dal campo cercando telefono e cuffie, ascolta musica, si prende un gelato al bar. All’improvviso ci pervade un moto di preoccupazione: basteranno i 450 euro che ha vinto per pagarsi tre giorni a Roma? 

Challenger Roma


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