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La chatte noir

Infortuni, allenamenti, ripresa e il ritorno in campo con la paura di non essere più quelli di prima: solo il torneo potrà dirci quanto valiamo.

Infortuni, allenamenti, ripresa e il ritorno in campo con la paura di non essere più quelli di prima: solo il torneo potrà dirci quanto valiamo.

A metà febbraio a Roma i tornei di tennis sono già frequenti, d’altronde da malati quali siamo non smettiamo mai di allenarci proprio per i tornei. Giocare per il gusto di divertirci non appartiene al nostro credo, purtroppo. 

Al debutto stagionale ci tocca aspettare che il campo si asciughi, “fra una mezz’oretta giocate” ci dice il giudice mentre io e il mio avversario facciamo conoscenza. “Allora me faccio ‘na call de lavoro” dice uno dei due, vai a sapere chi. 

Quando iniziamo a giocare, il campo è umido, forse ripiove, anzi: piove. Siamo sull’1-1, ci fermiamo per un quarto d’ora circa. Si capisce che il pomeriggio sarà così, il tempo infatti è di quelli che promette pioggia ogni pochi minuti. Riprendiamo a giocare e tutti e due teniamo i game al servizio. Capisco subito che il mio avversario è uno di quelli che io chiamo parassiti. Non prendono rischi, cercano di succhiarti l’energia mentale rimettendo ogni palla, lasciando che sia tu a farti contorcere dai pensieri, alla ricerca del colpo migliore.  

Il pensiero che dovrò stare concentrato per ore, perché non c’è altro verso per vincere questa partita, comincia a farsi ingombrante nella mia testa fino a quando diventa opprimente sul 4-3 per lui. Servo io e gioco in maniera sciatta, distratta. Ho abbassato la concentrazione, mi sono concesso una pausa, lui servirà per il set. 

Sto trovando continuità di colpi contro uno che non prende mai un rischio, so che devo essere quasi perfetto per poter vincere. Ho iniziato sbagliando troppo ma ora sto crescendo, prendo sicurezza game dopo game anche se sono sotto nel punteggio. D’altronde sono venuto a giocare il torneo proprio per ritrovare fiducia dopo un brutto periodo tennistico.

La stagione scorsa si è conclusa infatti con una lunga serie di sconfitte, seguita dalla decisione di fermarsi per un paio di mesi per curare un problema alla schiena. Poi il ritorno in campo quando ormai mi ero trasformato in un comune uomo più da piscina che da palestra; poco dopo, la ripresa leggera, qualche ora di allenamento senza fare partita e poi, finalmente, qualche partita con i soliti sparring partner, che non perdevano occasione di evidenziare quanto fossi indietro rispetto a quel che ero qualche tempo prima. Ho iniziato l’anno con il morale basso, avevo fantasticato un rientro diverso.

Vinco tre game di fila, servo per il set sul 6-5 ma gioco un altro brutto gioco. Tiebreak quindi. Vado sul 2-0 ma inizia a piovere di nuovo, sul 2 a 1 ci fermiamo, il giudice ci manda a casa: riprenderemo il giorno dopo. 

Passo tutto il resto della giornata a capire cosa devo fare alla ripresa del match. Ho brutte sensazioni. Mi ripeto che in condizioni decenti avrei vinto quel set 6-3, non soffro particolarmente i giocatori che mi costringono a guadagnare tutti i punti della partita. Sto bene fisicamente, sono allenato e centrato, eppure non ho feeling positivi. Cosa c’è? Ho paura, è evidente. Ma non paura di perdere, piuttosto temo di capire quanto valgo realmente, di scoprire che sono peggiorato, che sono meno competitivo. Che ci starebbe eh, sono cose molto normali specie quando si gioca nella categoria over e gli anni passano, il problema è che io ci penso troppo.

L’arrivo al circolo per il debutto: un presagio

Quando riprende il match sono super concentrato, mi dico più volte di fare il primo punto. Se vado sul 3-1 gli faccio capire che voglio vincere, è fondamentale vincere il primo, durissimo set. Ci siamo scaldati bene, stavolta c’è il sole, lui ce l’ha in faccia. Le palline sono un po’ pesanti, il campo ancora umido, è ora di pranzo. Serve lui, dopo un paio di colpi tiro a rete un dritto facile. Vado avanti 3-2, rompo il ghiaccio ma mi fermo là: lui sale sul 4-3 e servizio, ma io ribalto e vado sul 5-4 e mi procuro un set point poco dopo. Prendo un rischio e sbaglio, era un’occasione buona, mi domando se ne avrò un’altra. Sul 7-6 per lui annullo una palla set chiudendo un dritto vincente dopo una prima “robusta”, come si dice di solito. Arriva un altro set point, stavolta capitalizzo da fondo campo con la solidità, lui sbaglia. Per me c’è un po’ di sollievo, ma dura poco: il match è ancora durissimo e nessuno dei due è stanco. 

Lui è un tipo molto calmo, sorridente. È francese, alto, vestito di nero come me. Sembra non poter perdere mai la tranquillità, ha accettato di giocare la partita di rimessa, potendo far punto solo quando sbaglio io. Batte bene e ha un gran rovescio tagliato, in palleggio ha provato anche a giocarlo “coperto”, ma in partita non lo tirerà mai.

Non riesco ad allungare sul 2-0 del secondo set sbagliando un paio di palle break. In quel momento realizzo che gli sto giocando sempre sul rovescio, gliel’ho allenato, quindi mi dico di variare: due, tre palle sul rovescio, poi indirizzare sull’incrociato per farlo correre e, appena accorcia, un attacco solido di nuovo sul rovescio e di corsa a rete. Questa è la via, non c’è altro verso. 

Tre pari, 0-40, servo io. Mentre recupero le palline penso: “Ecco il collasso. Perderò questo set e il super tiebreak finale, e smetterò di fare tornei”. Al primo segnale negativo, fosse anche uno 0-15, io prefiguro la catastrofe, il peggiore degli scenari possibili. Proprio non funzionano gli incoraggiamenti, il sostegno anche esterno, quelle poche volte che c’è, io non riesco proprio a cercare di essere positivo quando mi gioco la partita. 

E quindi dopo ogni punto devo parlare con me stesso per convincermi che va tutto bene, di non pensare a quella volée sbagliata malamente solo perché ero teso e non perché non sappia farla, tanto anche gli spettatori hanno capito che l’ho fallita per la tensione. E quindi ad ogni quindici c’è da fare reset, ricaricarsi e ripartire. Tutto ciò è estenuante, ma non c’è altra via per vincere una partita sostanzialmente pari.

“Questa volta smetto con i tornei, continuo ad andare in palestra e a giocare al circolo, senza ansie, se perdo in allenamento non fa niente, sto invecchiando e i miei compagni di squadra sono più giovani”. 

Concludo il discorso dicendo che sono uno small cat subito prima di piazzare una prima vincente. Sul 15-40 sembra tutto più facile, faccio anche l’altro punto e qualche minuto dopo sono avanti 4-3. 

La campagna romana a febbraio

“Adesso tremerà, sicuramente concederà qualcosa dopo la delusione per tre palle break consecutive” mi dico. Povero illuso. Perdo il game da 0-30, si va sul 4 pari. Qui tutto mi sembra più facile, credo dipenda dal punteggio. Nei primi game la fine del set è molto lontana e quindi spreco molte energie mentali a pensare se riuscirò a farcela o meno. Come quando ogni tanto guardo un match in TV sintonizzandomi sul canale magari solo nelle fasi finali del set, come se i primi game non fossero fondamentali a far arrivare uno dei due tennisti a servire per il set. 

Mi faccio agganciare sul 40-40 dopo aver fallito due palle game, ecco un altro momento di collasso. Lui arriva a palla break ma io mi faccio coraggio e l’annullo di forza. Cambio campo sul 5-4 per me, adesso è il momento di chiudere. Vado sul 15-30, sono a due punti dal match. Giochiamo un grande scambio; lo costringo a correre molto con un forcing incessante, quando vado a rete a chiudere lo scambio lui mi supera con un gran recupero, il suo pallonetto è vincente. Invece delle solite imprecazioni urlo un la CHAAAAATTE, come l’idolo Benoît. La mia pronuncia mi consente di farla franca.

Sono deluso, ma mi dico di pensare positivo. Questa volta il discorso che mi faccio è un prep-talk: “Sto conducendo la partita, mi sono salvato due volte grazie alla bravura, tutti i punti sono sulla mia racchetta, e poi ho vinto io il primo set eh! Tutto è in mio favore, forse c’è un altro tiebreak in arrivo, dai che manca poco ed è finita”. Batto benissimo, prendo un paio di righe con due prime di servizio, giriamo sul 6-5 per me.

Il primo punto del game e la sua importanza, una cosa che tutti sappiamo e che ogni maestro ci ripete da decenni. Vado 0-15 ancora una volta, ma oramai avete letto quante volte è successo senza che poi sia effettivamente successo qualcosa, no? Non gli entra la prima, batte la seconda da sotto ma la mette larga. Sorrido, capisco che è il segnale divino. Non vado 0-40 perché un vincente di dritto si stampa sul nastro. Lo rifaccio identico nel punto seguente, entra. Due matchpoint. A questo punto sono insolitamente sicuro di chiudere tanto che quando indirizza una palla alta sul mio dritto non ci penso due volte, carico incrociato per l’ultimo vincente del match. 

Eccola, è arrivata la sensazione magica: il sollievo, la paura scampata, ce l’ho fatta, sono sopravvissuto. Avevo dimenticato che vado a fare i tornei solo per questa scarica di adrenalina. 

Il giorno dopo c’è la testa di serie numero 1 da affrontare, uno bravo, che si allena parecchio, un vero professionista a questi livelli. Un anno fa ci persi in semifinale in un torneo analogo per 6-1 7-6, non bastò neanche giocare un gran secondo set per vincere il parziale. 

Mi avvicino alla gara senza aver niente da perdere, la maniera perfetta per giocare il miglior tennis, no? Invece sul 3-2 per lui del primo set smetto praticamente di giocare. In una mezz’ora circa mi ritrovo 6-2 5-3, con i tre game del secondo set vinti quando serve solo lui: cosa è successo? 

Ho perso il primo game della partita da 40-15, ho vinto il secondo e perso il terzo game ancora da 40–15, lui ha vinto il quarto concedendo due palle break prima di vincere il quinto. Da quel momento mi sono demoralizzato, la partita era tutta davanti a me, c’era il sole, c’era lo stimolo di affrontare un giocatore bravo, tecnicamente valido, che scendeva a rete con il rovescio in back costringendomi a difendere come raramente avviene a questi livelli, che alternava serve and volley a scambi lunghi da dietro. Eppure, dentro di me sentivo che non sarei riuscito mai a batterlo, tanto vale quindi galleggiare, fare qualche game per avere un risultato decente ma non dargli troppo fastidio nel percorso che lo avrebbe portato in finale. 

Assurdo, lo so, mi rendo conto ancora una volta che superato lo stress della prima partita, quel percorso lungo che mi pareva impossibile da affrontare, e cioè reggere tre ore di concentrazione contro un avversario inferiore, ce n’è un altro diverso, contro uno bravo ma comunque alla mia portata. “Dal 3-2 ho mollato, sono sceso in campo convinto di non poterti mai battere”. “Pensa invece che io questa partita la temevo”, ci diciamo a fine partita. Non l’ho neanche stancato, tanto che mi congeda dicendo che si va ad allenare con dei ragazzi in un circolo poco lontano. 

Passo i giorni a capire cosa è successo, più che altro voglio capire perché non riesco più a divertirmi quando vado a fare i tornei. Il mio rapporto col tennis è chiaramente deviato in questo momento, il pensiero della competizione mi sta stressando, a me che non concepisco fare sport senza partecipare alle gare. 

Ma non c’è molto tempo per pensare, sono in tabellone ad un altro torneo e quando vado a giocare il primo turno sono iper rilassato. La sensazione è quella del carcerato all’ultimo pasto prima dell’iniezione fatale. Il subconscio ha già deciso che devo giocare, perdere, e lasciare i tornei per un po’, così da riacquistare serenità e voglia di tornare a giocare. 

Tutto fila liscio, gioco a pochi metri dal Tevere, è buio, fa freddo e lui è giovane e bravo: non c’è un solo appiglio che possa farmi venire voglia di soffrire per giocare questa partita. Mi alzo dalla sedia sul 6-0 4-1 per lui dicendomi una cosa tipo “dai, finisci ‘sta partita e riposiamoci per un bel po’”. Non so come ma riesco a vincere il set 7-5, non sono così incapace mi dico. Perdo al terzo set dopo aver sprecato l’opportunità di andare in vantaggio nel punteggio. 

Riprendo la strada di casa felice di non essere più iscritto a tornei, almeno nelle prossime due settimane. Decido però che smettere non è più un’opzione, farne meno sì. Ecco, fra un paio di settimane ne arriva un altro: vedremo che succederà. 


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