menu Menu

The wild bunch, la vittoria del branco

Sfida da dentro o fuori nell’Over 40 a squadre, un doppio da evitare, una partita impossibile da rimontare, ma Francesco non è solo.

Sfida da dentro o fuori nell’Over 40 a squadre, un doppio da evitare, una partita impossibile da rimontare, ma Francesco non è solo.

Mentre mi scaldavo davo un’occhiata al campo di fianco. Dritti e rovesci dell’avversario di Francesco erano sgraziati, niente a che vedere con i suoi, rodati e veloci come quelli di un ottimo terza categoria. “Farà tre o quattro game quello… meno male così gioco il mio singolare tranquillo”. Quarti di finale del tabellone regionale dell’Over 40 a squadre. Affrontiamo in trasferta una squadra forte e io e Francesco siamo stati scelti da capitan Pierpaolo per giocare i due singolari. 

Se non sento Francesco esultare in genere significa che la partita è in controllo. Quando lo sento urlare invece, con quella che oramai tutti abbiamo imparato a chiamare la vocina, tanto stride con la sua debordante fisicità, vuol dire che la partita è dura e combattuta. Mi ricorda il mio Maine Coon, il gatto gigante che fa paura a vederlo tanto è grande e forte ma che poi elemosina croccantini con un miao che non è proprio del suo gigantismo, una vocina appunto. 

Intanto ero alle prese con i miei problemi con la partita, e cioè fronteggiare i soliti demoni che si presentano sempre quando c’è torneo. Che sarebbe stata difficile l’avevo capito nei palleggi. Lui mancino, un dritto piatto portato à la Volkov, un tennista anni ‘90 destrorso che giocava con la sinistra dopo un incidente e che una volta eliminò Edberg al primo turno degli US Open. Colpiva senza molto aiuto della mano destra, quella che dà il bilanciamento, e la palla usciva comunque rapida e totalmente piatta. Il vento rendeva tutto ancora più difficile.

Eppure ero partito bene, avanti subito sul 2-0 che presto è diventato due pari. La partita si è incasinata subito per via del forte vento che soffiava nel verso delle righe lunghe del campo, si giocavano due game controvento e due game col vento a favore. Io preferivo il vento in poppa. 

La prima di servizio non entrava mai e i gratuiti erano tanti, ero poco attivo con le gambe nei cosiddetti passi di aggiustamento, quelli prima dell’impatto; anche la tattica non era un granché. Tanto è vero che Alessandro scendeva subito dalla tribuna con la faccia che era tutto un “famme andà a dirgli qualcosa sennò qui la perdiamo subito”. 

Globetrotter, battuta pronta, sorriso contagioso e tennista storico del circolo perennemente afflitto da problemi fisici, Alessandro l’abbiamo recuperato e iscritto in squadra più per il bene che gli vogliamo che per il reale apporto tennistico che avrebbe potuto dare. Ci sbagliavamo, lui ci ha smentito facendoci vincere i doppi decisivi nelle prime due giornate del girone, quando i singolari erano finiti 1-1 per via delle mie due sconfitte. Conosce tutti in ogni campo da tennis di Roma, gli dico sempre che è il brand ambassador del circolo, solo i suoi guai alle anche gli impediscono di essere in campo con regolarità, tanto al circolo quanto in torneo. Quando lo chiamiamo in causa per il doppio, una specialità che gioca bene, lui non si tira mai indietro anche se sa che nei giorni a seguire difficilmente camminerà.  

Mi striglia, mi dice di concentrarmi su poche cose, “incrociato incrociato e poi va di là, non prendere troppi rischi, c’è vento, se tiri un altro dritto in rete mi incazzo di brutto”. Dal 3-3 applico il mantra e chiudo 6-3. Intanto Francesco soffre, intravedo scambi lunghi e poche esultanze. 

Il gruppo dell’over 40 che si è formato e cementato in queste settimane nelle quali abbiamo vinto il girone ora è diviso. Pierpaolo, il capitano ancora imbattuto e che ci ha guidato verso la vittoria nel campionato regionale invernale a squadre, la famosa Coppa Gabbiani, segue ora Francesco. Sulla tribuna in blocchi di tufo che costeggia il mio campo c’è Alessandro insieme a Marco, altro giocatore dal gran talento ma che sembra essere un pezzo d’arredamento dei gradini tanto è immobile; è in chiaro hangover dalla serata precedente, trascorsa a emulare Brian May nella cover band dei Queen che lo diverte più del tennis, parole sue. 

Nel secondo set vado subito sotto 2-0, rimango in scia ma lui è avanti 3-2. Alessandro ad ogni cambio campo è pressante come un venditore di folletto, quelli del porta a porta; non c’è verso di mandarlo via, tocca ascoltare e soprattutto mettere in pratica, solo così la predica sarà più breve. Ribalto e recupero break, 4-3 per me. L’avversario dovrebbe accusare contraccolpo, mi mancano due game, ma in un minuto cambio sul 5-4 con lui che servirà per il set. Un parziale di 8 punti a 1 spiegabile solamente con dei problemi mentali che necessiterebbero terapie e prescrizioni mediche mi condanna al terzo set, almeno così penso prima di ritrovare una calma interiore dopo due game passati a dialogare sgarbatamente con dio. 

Stufo anche lui di farsi insultare, il creatore lancia dal cielo uno spartito tattico che interpreto perfettamente chiudendo per 7-5 il secondo set, addirittura in maniera autoritaria, tanto ho spinto la palla nell’ultimo game. L’avversario mi dà la mano un po’ stizzito, forse rosica, ma alla fine ha passato metà del suo tempo ad alzare palle lente nella mia metà campo, di cosa si vuole lamentare, penso.  

Stilisticamente impeccabile

Chiedo subito quanto sta Francesco, “ha perso il primo 7-6 ma ora è avanti 2-0”. Corriamo tutti dalla sua parte di campo, finalmente ci imbranchiamo.
Francesco si porta sempre un break avanti ma Giulio, il suo avversario che non ha perso mai in nessuna partita del girone, lo riprende sempre. 

Over 50, capello corto e azzimato, spalle piccole e un filo di pancia, un tennis ordinato e non spettacolare per esecuzioni stilistiche e due gambe che lo portano puntualmente e rapidamente nella zona in cui c’è da colpire. In più ha gli occhi azzurri come quelli del Nightking di Game of Thrones, del quale incarna la mentalità di sterminare ogni singola possibilità di perdere il punto giocando un tennis di rimessa. 

Mentre sono passate due ore e mezza di gioco ancora non siamo arrivati alla fine del secondo set. Dopo mezz’ora che guardo questo match realizzo di non aver ancora visto un errore di Giulio. Lo faccio notare a Pierpaolo, lui: “questo è così, sbaglia una palla ogni ora”. Giulio gioca in maniera ordinata, un aggettivo che si accosta sempre a tennisti forti. Mentre corre verso la palla immagino che la sua mente risolva formule complicate per ridurre al minimo il rischio dell’errore, che le formule dell’excel del suo tennis restituiscano sempre il risultato esatto, che non è mai uno sbaglio. Francesco sta giocando ad un ritmo basso, sa che non può sbagliare, questa è una partita nella quale i gratuiti si pagano a caro prezzo. 

Arriviamo a servire per il set ma Giulio recupera. Non molla nella sua oltranzista resistenza da fondocampo ai top spin di Francesco. Inoltre, Giulio è anche preciso come un sarto quando c’è da ricamare una volèe sotto rete, perché poi appena ne ha la possibilità viene avanti. “Che giocatore”, lo ripetiamo a turno mentre guardiamo questa partita che immaginiamo possa non finire mai. 

Hanno iniziato a giocare quando mancava un quarto d’ora alle tre, sono le 17:45 e sta iniziando il tiebreak del secondo set. Francesco ha uno score negativo quest’anno nei tiebreak, parte male e non li recupera più. Ha già perso 7-2 quello del primo set. “Non c’è speranza – dice Pierpaolo – è impossibile che lo vinca”. 

Ma anche ammesso che Francesco voglia inconsciamente perderlo, siamo noi quattro che lo sosteniamo incessantemente a volerlo vincere. Ed ad ogni punto Francesco non è solo, si gira verso di noi e può scegliere fra quattro diverse esultanze, quella composta del capitano, quella intorpidita dai fumi dell’alcol di Marco, la sguaiata di Alessandro e quella mia fatta di sguardi agitati, tutte in contemporanea. Francesco sembra stanco ma si nutre di questa energia che gli trasmettiamo, non sbaglia più e trascina il match al terzo set. 

Quando si avvicina alla panchina, circondato da noi, Frank sembra un soldato appena tornato dalla prima linea, cerca cibo e acqua. Mi giro a guardare Giulio dall’altra parte, sembra rilassato, la calma placida di uno che è inciampato ma che è già pronto a continuare una partita che dura da oltre tre ore, sembra imperturbabile.

Infatti va subito avanti 3-0. Noi siamo sgomenti, e per la prima volta le esultanze sono mogie, di circostanza, quelle che si fanno al compagno quando sappiamo che la partita è persa ma dobbiamo comunque ottemperare al ruolo di sostenitori. Niente potrebbe far pensare che si possa recuperare quella partita, vediamo Francesco trascinare le gambe, Giulio colpire sempre più sicuro. Ad un certo punto il Nostro si ferma, ha i crampi, Pierpaolo improvvisa un massaggio dopo che ci siamo guardati per capire che fare. “Francè, se te fa male fermate e amen”, gli dice Alessandro. 

Francesco continua, dirà poi che non voleva ritirarsi per non rovinare la partita, era pronto a perdere sonoramente in campo. Il braccio però ora scorre meglio, la sua palla esce più veloce dal piatto corde e il suo rovescio in back – stanco com’è non può di certo giocarlo in top – costringe sempre Giulio a scendere, forse a stancarsi, ammesso sia possibile. Accorciamo sul 3-1, esultiamo, ma Giulio avanza senza pietà sulle nostre macerie: 5-1. 

Francesco è titanico per come sta sfidando i suoi limiti, le leggi della natura umana, l’ineluttabilità che lo vorrebbe ritirarsi sul 5-1 del terzo in preda ai crampi. Scherzo con Alessandro mentre Francesco recupera energie, è arrivato infatti il loro doppista, già cambiato per giocare, sembra uno bravo. Gli dico: “certo sarebbe bello ora vincere ‘sta partita, andare subito da quello e dirgli: guarda te poi rimette in borghese”. Sorridiamo. 

Frank riesce ad accorciare sul 5-3, le nostre esultanze riprendono vigore ma Giulio arriva a matchpoint. Ne fallisce due, poi fa doppio fallo sul terzo. Infatti Giulio batte pianissimo, una seconda sempre appoggiata che sistematicamente lo costringe a iniziare il punto sulla difensiva, e lui ogni volta riesce a cavarsela. “Che giocatore”, risuona ancora nel nostro angolo. 

Francesco non dice più una parola, non ha le forze per gasarsi, non fa la vocina che altrimenti farebbe, i pugnetti che si vedono in tv dopo ogni quindici vinto o altri gesti che possano farcelo sembrare vivo. Gioca e basta. Si cambia campo sul 5-4 con Giulio che servirà ancora per il match ma non prima che Pierpaolo finisca l’ennesimo massaggio alla coscia destra di Francesco. 

Non c’è niente da dirgli in questo caso, forse solo sorridergli, lui pensa solo alla sua gamba che Pierpaolo cura neanche fosse il migliore degli specialisti. Agganciamo gli avversari sul 5 pari del terzo set, guardo l’orologio, sono le sette passate. Giulio e Francesco sono in campo da oltre quattro ore e nessuno vuole vedere l’altro vincere questa partita diventata un dramma. 

Ricordate quella frase che disse David Dinkins, il primo sindaco nero di New York che faceva deviare le rotte degli aerei per non farli passare sopra Flushing Meadows durante gli US Open per non disturbare i giocatori? Recitava così: “Il tennis non è solo una questione di vita o di morte, è molto di più”. 

Non c’è niente di più figurato ora nella mia mente di Francesco e Giulio che giocano con le vite loro e degli altri in questa partita, il tennis che diventa boxe, bellissimo anche ad un livello basso come il nostro. 

Serve Francesco, che nonostante sia menomato fisicamente riesce ad arrivare su ogni palla; ogni volta che corre ho paura che possa rompersi, cadere rovinosamente a terra e fermarsi ad un passo da quella che sarebbe una vera impresa tennistica. Non cede, non sarebbe da lui, rovinerebbe la sua narrazione, un tipo tosto, un trattore come lo chiamo io, uno che ara gli avversari facendo solchi nei quali semina top spin. 

Sale 6 a 5, a questo punto nell’angolo siamo galvanizzati oltre i limiti consentiti, tanto che un giocatore dell’altro campo si lamenta facendoci cenno di calmarci, sta giocando il torneo e noi lo stiamo disturbando. Gioca con la bandana, un obbrobrio, gli faccio un cenno con la mano che lui interpreta come uno scusa mentre sussurro un “manoncerompercazzo a pippa”. 

Mia moglie mi chiama incessantemente sul telefono, mi scrive, cerca di contattarmi mentre io rifiuto le chiamate e non le rispondo, tanto sono preso da questa partita. La chiamo dicendole che stiamo ancora giocando e che forse dovremo fare il doppio se perdiamo e si allungherà, lei, laconica: “non me ne frega un cazzo, voglio solo sapere che ora dire al delivery del ristorante cinese, fanculo voi e il tennis, uno sport del cazzo che non se sa mai quando finisce una partita”. Valle a dare torto.

Giulio fa un punto con la seconda palla, che prende la riga, si alza e costringe Francesco all’errore, ma i due punti seguenti sono nostri: 15/30. Ancora due quindici e potremo invadere il campo. Lo scambio è lungo, top di dritto e back di rovescio, Francesco non cambia più musica. Uno di questi back è corto, cortissimo, ma colpisce la riga della battuta e la palla muore rotolando sotto la racchetta di Giulio che, forse in quel momento, capisce che deve arrendersi. 

Lo scambio seguente, il nostro primo matchpoint, perché stiamo soffrendo tutti insieme a Francesco, intirizziti dalle folate di vento che ogni tanto arrivano mentre il sole ci ha già salutati morendo dietro la collina alle nostre spalle, è uno scambio analogo. Il nostro back colpisce il net perfettamente, la palla però rimane da noi dopo essersi alzata di poco. Ce n’è un altro. 

Abbiamo tutti buoni feeling, abbiamo recuperato una partita persa, l’abbiamo raddrizzata con l’epica di un giocatore che sta morendo fisicamente ma che rifiuta di arrendersi sfidando i suoi limiti. Riparte lo scambio, uguale a tutti gli altri, Francesco non prende più rischi, Giulio non li ha mai presi. Tirano entrambi al centro del campo, stiamo tutti trattenendo il fiato, spaventati dall’idea di non poter vincere questa partita, serve solo un errore di Giulio, che arriva incredibilmente quando un suo rovescio termina a metà rete. 

La racchetta di Francesco cade a terra, lui rimane in piedi immobile, è stordito, non capisce che dovrebbe andare a stringere la mano al suo avversario tanto è in stato di shock. Noi invadiamo il campo, lo indirizziamo verso Giulio, aspettiamo che gli stringa la mano prima di fagocitarlo nel nostro rumoroso abbraccio. Lui dice solo queste parole: “Ma che ho fatto?”. 

Andiamo tutti a stringere la mano a Giulio, gli facciamo i complimenti sinceri. Chiedo a Marco come fa di cognome, dicendogli che se lo trovo iscritto ai miei tornei mi cancellerò subito per non rischiare minimamente di impazzire. “Te contro questo duravi un quarto d’ora” mi fa Alessandro, ancora infastidito dalla sofferenza che gli ho provocato. 

Ci tratteniamo in campo per i festeggiamenti, facciamo le foto e quando faccio notare che non facciamo il doppio la gioia cresce ancora di più. Le anche di Alessandro, con il quale ho confabulato per una mezz’ora del terzo set di Francesco per decidere chi fra noi due dovesse giocare con Marco, ringraziano. “Fossi stato da solo, in un torneo normale, senza di voi, avrei mollato” realizza Francesco subito dopo nel suo primo momento di lucidità. Il secondo è quando avverte la famiglia che è ancora vivo, che stava solamente giocando una partita che si è allungata. 

Raramente mi sono sentito felice per una vittoria di una squadra, eppure ho giocato a calcio una quindicina d’anni più seriamente che a tennis. Ma ero il tipo che quando l’allenatore mi metteva in panchina tifavo per gli altri. Qui è diverso, nei campionati a squadre degli anni scorsi litigavo col capitano, non mi presentavo se non ero sicuro di giocare, dei compagni mi fregava relativamente poco. 

Questa volta è diverso, gioco peggio del solito proprio perché sento una responsabilità maggiore, non deludere chi sta a bordo campo a sostenermi è il pensiero fisso che accompagna i miei pensieri mentre gioco. E finite le mie partite vado subito a cambiare ruolo per tifare i compagni, esulto e soffro con loro, riesco a provare empatia, una rarità per me. Ed è stato così dall’inizio del torneo, che non è ancora finito perché ora siamo in semifinale. Siamo affamati, proprio come i lupi, che attaccano e vincono in branco. 


Previous Next

keyboard_arrow_up