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Le fatiche della D1

Al campionato a squadre senza limiti di età va in scena lo scontro generazionale, e vince chi è giusto che vinca.

Al campionato a squadre senza limiti di età va in scena lo scontro generazionale, e vince chi è giusto che vinca.

Domenica mattina verso le 7, tutta Roma dorme stanca da quel delirio che può esserci viverci una settimana intera. Mi alzo e raggiungo l’armadio con la luce spenta, l’idea è quella generosa di non svegliare moglie e figlio ma inciampo nello spigolo del maledetto letto con la tibia destra. Raggiungo il bagno, accendo la luce, vedo lo strato di pelle già alto che ha liberato la via per il sangue, il dolore cresce. Bestemmio, mia moglie si sveglia: ho fatto un casino per prepararmi la borsa per andare a giocare il campionato a squadre in serie D1. 

Siamo già alla seconda giornata, la prima l’abbiamo pareggiata 3-3 in casa, io ho pure vinto. Più che altro loro erano di Rieti quindi ci siamo risparmiati una trasferta rognosa. Oggi si gioca dentro Roma in un circolo dalla storia tennistica prestigiosa, quindi alle 9 si deve iniziare a giocare. 

Esco di corsa dopo la colazione, il circolo non dista neanche tanto, ho perso tempo soprattutto nel cercare un cerotto mentre imprecavo. La tibia già si è gonfiata, mi incazzo perché so che dovrò stare attento tutta la settimana, se ci sbatto ancora il dolore sarà ancora più grande. 

Mi raduno con gli altri al parcheggio del circolo, c’è il nostro maestro-capitano, mi chiede com’è andato il torneo. Il giorno prima infatti sono sceso in campo per il primo turno in un torneo per veterani – i vecchi, in un altro bel circolo di Roma nord. Ho vinto facilmente contro uno classificato peggio di me, una costanza oramai in questa nuova stagione che mi vede essere tornato in buona fiducia dopo un 2022 orribile; ho vinto infatti diverse partite, addirittura due tornei Over 40 con pochi iscritti in tabellone, ma sempre meglio che perdere, no? 

L’avversario del torneo Over 40 era molto cordiale, mentre aspettavamo che si liberasse un campo mi ha detto che si è informato su di me, immagina che sia molto forte. “Sei stato 3.2 quindi sei bravo! Io mi sono fatto i miei calcoli e al massimo posso diventare 3.3 per livello di gioco”. Non sapevo come rispondere, me la sono cavata con un “la classifica conta relativamente”. C’era mio figlio a bordo campo, a parlare con chiunque si avvicinasse e a chiedere dopo ogni scambio il punteggio, tanto a me quanto al mio avversario, fortunatamente una persona talmente squisita che sorrideva insieme a me.

Chi non segue il tennis dell’inferno della quarta e del purgatorio della terza categoria potrebbe pensare che questa affabilità e gentilezza sia normale al torneo, ma vi dico solo che nel campo adiacente al nostro c’era il giudice arbitro a fare l’arbitro, visto che i due litigavano su ogni segno di palla, e in un altro campo si è addirittura sfiorata la rissa, con uno dei due che è venuto dal giudice per dire di “mettere a verbale che ho subito delle minacce, lui mi ha detto che mi aspetta fuori”. “Magari per una birra” ho bofonchiato cercando di sdrammatizzare. Invece la cosa sembrava seria. 

Racconto il mio sabato ai compagni della domenica, che ridono divertiti mentre il capitano fa la formazione. Mi tocca scendere in campo subito, addirittura sul centrale. 

Io ho giocato a tennis poco da ragazzino, per niente da ragazzo (dai 20 ai 30 anni), e perdipiù l’ho fatto in provincia, in circoli sgarrupati con le sedie bianche di plastica come tribune, salvo qualche rara eccezione. Ho ripreso a giocare quando mi sono trasferito definitivamente a Roma dopo un cambio di lavoro che mi stava uccidendo, e tornare a fare i tornei per me era più “voglio giocare nei campi più belli dei circoli di questa città, prestigiosi e fantastici”. Quello di oggi era uno di quelli che mancava nella lista. 

Questa squadra è la più forte del girone, hanno due seconda categoria, io gioco da numero quattro e il mio avversario è un ragazzino che ha appena fatto la finale in un torneo di terza. Lui è classificato un gradino peggio di me ma so bene che la “classifica conta relativamente”, questa volta ci credo quando lo dico. Infatti fra le revisioni puntuali della Federtennis e la crescita esponenziale che solo questi pischelli possono fare in pochi mesi è capace che a fine anno questo ragazzo diventi seconda categoria. 

Le nuvole del mattino si diradano, il sole fa salire la temperatura, il Tevere è placido e c’è un perfetto silenzio sul prato che costeggia il fiume in direzione dei campi da tennis. La quiete si interrompe solo quando l’acqua si increspa per il passaggio degli equipaggi dei quattro con che si caricano urlando mentre vogano. È iniziata infatti un’altra classica domenica dei circoli romani, quelle giornate nelle quali i soci dei club non vanno al mare, sono già reduci dalla montagna e quindi tocca inverarsi una sudatina nella forma di un padel o di un doppio per scappare al circolo, per fare quelle chiacchiere “Con chi giochi? Com’è andata poi ieri con l’avvocato?”, ascoltare le facezie che nella capitale si sublimano con l’accento romanesco, per terminare il tutto con un pranzo rigorosamente vista fiume in questo microcosmo che è il circolo tennis nella parte nord di Roma sul Tevere, un posto dove i problemi non esistono. 

Si gioca ovviamente in maglietta anche se siamo a marzo, questa è Roma. Noi siamo in total white con le nuove divise che ci hanno dato per i campionati, loro sono con una t-shirt gialla e un pantaloncino blu. “Non ci vestirei manco gli operai così, con rispetto per gli operai eh perché io l’ho fatto l’operaio”, dico a Marco, il mio compagno di squadra over come me che giocherà l’altro singolare mentre entriamo in campo. Sono l’unico ad abbinare i calzini al completo da tennis, mi dico sempre che posso uscire perdente dal campo ma sempre nella maniera più elegante possibile. 

Iniziamo a giocare, capisco subito che la partita è dura ma io inizio bene, recupero il primo game da 40-15 per lui, faccio il break e confermo d’autorità il servizio: 2-0 per me. Gioco male l’altro game, faccio qualche errore, lui va sul 2-1. Il mio capitano è seduto in tribuna; è ancora troppo presto per entrare in campo a dispensare consigli, di solito poi quando entra il capitano vuol dire che si sta perdendo. Quello del mio avversario parla fitto con lui, e siamo al terzo game. 

Questo ragazzino che gioca con il cappello e che ha quasi più tatuaggi che anni inizia a rallentare il gioco, a giocare profondo, alto in top spin senza mai prendere rischi. Ogni punto si allunga, io prendo rischi, arrivano i primi gratuiti. Lui non ne fa più. Nei primi game aveva provato a mettermi sotto forzando ma avevo retto bene. Se devo vincere tutti i punti a questa velocità contro un ragazzino che non sbaglia mai e corre il triplo di me diventa tutto più complicato. Realizzo che il capitano probabilmente gli avrà detto una roba tipo “è inutile complicarsi la vita, se giochi prendendo rischi sbagli qualcosa e lui è in partita. Rimetti ‘sta palla e fallo correre che quello è un vecchio”.

Fallisco la palla per il 3-2 per me, poi quella del 3-3 quando lui va avanti. Sbaglio una volée facile, perché mi faccio trovare impreparato quando pensavo di aver già chiuso la pratica con un poderoso dritto a sventaglio. A fine partita, il capitano mi dirà che “quando giochi con questi ragazzini molte volte sbagli perché pensi che il punto sia già finito invece la palla torna indietro praticamente sempre”. 

Dopo aver perso il primo set per 6-2 ho capito che non ce l’avrei mai fatta, ho perso un punto addirittura colpendo quattro volte al volo con lui che recuperava tutto. Io ero alla disperata ricerca del primo game del secondo set per non subire il sei a zero, lui oramai era molto gasato. Addirittura, ogni tanto tirava un vincente. 

Gentile ed educato, addirittura quando ci incrociavamo ai cambi campo aspettava sempre che passassi io prima, sapete quelle accortezze che si riservano ai vecchi? Durante uno scambio, nel tentativo di recuperare una smorzata, scatto in avanti ma scivolo: mi inginocchio come se avessi di fronte Dio, il cantante però, lascio la racchetta e per non cadere di faccia piazzo il palmo della mano sinistra per terra talmente forte che do una botta, mi si gonfierà poi, secondo infortunio della giornata. E lui “Tutto bene? Tutto apposto? Ti sei fatto male?”, con quella faccia finto preoccupata come quando cade il vecchio di ottant’anni al parco e pensi “oddio s’è rotto er femore mo tocca chiamà l’ambulanza”. Che fastidio. 

Gli stringo velocemente la mano dopo non essere riuscito a evitare il 6-0, anzi il doppio 6-0 visto che non ho vinto più un game dal 2-0 per me. Lui prende il telefono e comunica urbi et orbi che la pratica è stata sbrigata velocemente, con un punteggio convincente. Spero aggiunga “anche se era un vecchio”, magari senza demmerda come si completa di solito la frase qui a Roma. 

Nel frattempo, nel campo di fronte Marco ha già finito. Ha giocato contro uno anche meglio del mio avversario, ogni tanto sbirciavo qualche scambio e, non so perché, nella mia testa pensavo che ci fosse partita. Invece l’altro pischello ha vinto per 6-1 6-2, la gioventù sta dominando in riva al Tevere. 

Scendono in campo i nostri numeri uno e due, due imberbi sedicenni. Siamo in squadra insieme soprattutto per far giocare loro, noi siamo la squadra B del circolo, più debole della A, ma decisamente la più simpatica. I due ragazzini incrociano due seconda categoria, uno è alto un metro e novanta e quando serve sembra di stare al Foro Italico a vedere i professionisti, l’altro è uno che è stato 2.4 e anche se ora è sceso di classifica è ancora di un’altra categoria. Arrivano altre due facili vittorie per i padroni di casa, 4-0 e pratica archiviata. Siamo al girone e tocca fare anche i doppi. 

Rido con Marco delle nostre performance. Scanso i commenti tecnici, dico solo un “ma do cazzo annamo co’ questi, guarda sta palla quanto salta, pensa noi a correrci dietro”. “Eh se magari ci alleniamo” mi fa. “Più di questo? Impossibile”. Infatti penso di essere uno dei più allenati di Roma: palestra, bicicletta, tennis, una roba inevitabile che serve per competere degnamente fra i veterani, gli over, figuriamoci cosa si può fare di più contro i sedicenni carichi di testosterone e che non sanno cos’è il Gaviscon. 

Mi si è infiammato il braccio, il palmo della mano sinistro è gonfio, il dito indice della mano destra sanguina per un taglio subito due giorni prima e che ora è incerottato: salterei volentieri il doppio, ma il capitano mi butta in campo. Ci mischiamo, io gioco con uno dei pischelli, quello che ha il carattere da mezzo matto tipo me. Marco commenta con un “Te e Simone insieme se divertimo proprio”. Il sedicenne oculato, quello che in campo già ragiona, gioca con Francesco, uno che avrebbe giocato sicuramente il singolare ma che ora, essendo reduce da un infortunio, sta risalendo la china giocando con noi qualche doppio.  

Simone sotto rete sarebbe anche peggio di me, solo se fosse possibile però. Rosico subito che, quando vado a servire io per la prima volta, perdiamo il game da 40-30 proprio per un suo errore. Però vabbè. Riesco a tenere il servizio nell’altro turno di battuta che mi tocca, sarà l’unico game vinto nel rapido 6-1. Giochiamo contro il maestro ex 2.4 e quello che mi ha già battuto in singolare, che ora gigioneggia e, addirittura, tira anche forte. Non riesco a mettere una volée dall’altra parte del campo. Entro a rete un paio di volte con ottima scelta di tempo ma stecco sempre il colpo, poi quando mi tirano addosso io presidio il lungolinea ma stecco sistematicamente tutte le volée. La cosa incredibile è che rimangono tutte nella mia metà campo. A ogni volée-disastro mi giro verso Marco e verso il capitano, giusto per cercare conforto nel vederli guardare l’altra partita. Sono scarso a rete ma non così scarso, quando però stecco molto vuol dire che non ci credo più, che non sono pronto, che mi sono depresso. 

Al cambio campo Simone mi dice che ci crede, “Abbiamo perso il primo ma possiamo vincere la partita”. Penso che sia matto veramente, e questa cosa mi gasa tantissimo. La partita infatti non è mai in discussione. Si tratta solo di evitare un altro 6-0 per quanto mi riguarda. Ogni tanto mi viene da dirgli qualcosa, poi vedo che manco mi ascolta, oltretutto la partita è talmente indirizzata che sarebbe ridicolo parlare di tattica. 

Gli avversari sono già in largo vantaggio quando c’è uno scambio ravvicinato a rete, io sono a metà campo, uno di loro mi indirizza una volée in mezzo ai piedi. Abbozzo un goffo tentativo di tirare su una palla che rimbalza praticamente sui lacci delle mie scarpe, colpisco la palla e la mando per terra, ma il bello è che mi do una racchettata sulla tibia sinistra, il tutto mentre dal campo di fianco arriva una palla. Mi chiedono se mi ha disturbato offrendomi di ripetere il punto, ennesima carineria da ospizio. Gli rispondo ridendo che “attaccarsi a questa roba mi renderebbe ancora più ridicolo”. Sorridono anche loro. Poco dopo ci stringiamo la mano, 6-1 6-1, Simone dice ancora qualcosa sulla partita, io gli sorrido e chiudo tutti i discorsi con una pacca sulla spalla. 

Mentre la tibia sinistra si avvia a pareggiare il gonfiore con la tibia destra, ci mettiamo a vedere gli ultimi game di Francesco e Matteo sul campo di fianco. Giocano contro quello che tira il servizio forte e un altro giocatore, un doppista. Tanto è vero che battono addirittura con lo schema all’australiana, con l’uomo a rete che non sai che parte di campo coprirà dopo la tua risposta. I nostri vincono 5 game in due set e ci prendono in giro su questo. “Ah, così ci siamo ridotti? A contare i game nelle partite perse?”. 

Lascio il circolo per ultimo, Francesco si ferma a pranzo, la compagna lo ha infatti raggiunto con i bambini e ha deciso che mangeranno anche loro vista fiume. “Te partiranno almeno duecento euro a pranzo co ‘sta bella gente” gli dico, lui replica un “ma magari mi cacciano visto che sto in tuta”. Incrociamo il ragazzino che mi ha battuto due volte sul viale, ci saluta. “Sarebbe bello daje ‘na pizza così, di passaggio, dirgli di andare a fare il fenomeno con quelli dell’età sua”. Francesco ride. 

Sono stato in campo quasi tre ore, neanche tanto per due partite molto rapide, e non sono infatti stanco di fiato o di gambe. Ma sento che mi fa male tutto. Le tibie sono gonfie, una è incerottata, il dito della mano destra ha la ferita riaperta, il palmo della mano sinistra è gonfio, braccio e spalla li sento infiammati: sembra che mi hanno menato. 

Torno a casa alle due, un record per la D1 considerato che si giocano quattro singolari e due doppi, mia moglie infatti si sorprende. Le faccio un sunto della giornata che lei ascolta col solito disinteresse, mi degna di attenzione solo quando le dico che non mi sento bene. “Ma pure te, ma che cazzo vai a giocà coi regazzini?  Ma va a gioca’ co’ quelli dell’età tua che sei un vecchio”. Non ha detto “vecchio demmerda”, ecco cos’è l’amore. 


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