Abbiamo problemi con la gente.
By Claudio Giuliani Posted in monografie on 19 Novembre 2015 6 min read
Un anno fa David Ferrer venne alle ATP Finals da panchinaro. Non era riuscito a qualificarsi in una stagione infame, che lo aveva visto finire fuori dai migliori otto dopo aver iniziato l’anno al numero tre della classifica mondiale. Nel 2014 scese in campo, per un unico match, e come per magia una partita arrivò al terzo set. Il pubblico aveva assistito fin lì a match senza storia, con zero spettacolo, e soprattutto senza un minimo di combattività. Senza David Ferrer, insomma. Che quest’anno c’è. Ha guadagnato la qualificazione e una delle colonne sùbito fuori la O2 Arena è giustamente ricoperta da una sua gigantografia cartonata.
Quando è in campo, dagli spalti il pubblico non manca mai di fargli sentire quanto lo rispetta. È un giocatore corretto, che lotta, che cerca di compensare con corsa e tenacia qualche centimetro in meno e una prima palla di servizio non certo devastante. È comunque lì, e il pubblico, anche memore dell’edizione 2014 del torneo, sa che servono giocatori come lui per far venir fuori belle partite.
Appena l’arbitro dà il la al gioco, Ferrer comincia a colpire da una parte e dall’altra alla solita maniera. Ha i suoi schemi che funzionano quasi sempre. Il quasi comprende i giocatori classificati fra il numero 1 e il numero 4 della classifica mondiali, quelli che lo battono quasi sempre. Il canovaccio di un match di Ferrer è il solito: scambi interminabili da fondo campo, bagnare il campo con il sudore correndo ovunque ci sia spazio e una pallina da colpire e andare a rete solo per raccogliere le smorzate. David soffre quando trova un giocatore che fa le sue stesse cose ma meglio, e con meno fatica, tipo Murray. Lo scozzese ha pure una mano migliore, quindi fra smorzate e recuperi ha sempre qualche soluzione in più.
Ma figurarsi se David si dà per vinto solo perché ha contro uno che ha vinto qualche Slam, uno che ha riportato Wimbledon agli inglesi dopo 77 anni e che ora conquisterà anche la coppa Davis, che manca in casa della Regina dal 1936. Lo spagnolo lotta, sbuffa, corre, arrota, si piega e si rialza. David è un moto continuo sia nello scambio sia quando aspetta il servizio dell’avversario, quando saltella prima di accucciarsi per lo split step, il saltello che si fa in direzione della palla. Corre anche da fermo.
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— Tennispotting (@tennispotting) November 16, 2015
David Ferrer è noto per essere un giocatore che non molla mai, a prescindere dal punteggio. Quando Murray aumenta il ritmo in prossimità della chiusura del set, David arranca, costretto com’è a inseguire la pallina, che ora scappa via con maggior velocità. Ma lui ci prova sempre, non risparmia mai la corsa perché non deve mai dare l’impressione che abbia mollato una palla. Se c’è da correre, lui corre. È rispettato anche per questo, da tifosi e dai giocatori. Non c’è da stupirsi se l’avversario concede la chiamata del Falco anche dopo che l’arbitro, sbagliando, ha chiamato il punteggio perché non aveva visto il braccio alzato di Ferrer (che aveva ragione). Murray è britannico, e quindi è un gentleman, e il pubblico apprezza il gesto.
Anche perché lo scozzese è in vantaggio, ma figurarsi se David si arrende. Lui riprende a giocare anche dopo aver preso una batosta. Concentrato sempre sul punto, sia che ci si trovi 0-40 sia che sia 40-0, lui gioca sempre alla stessa maniera, con la stessa indole combattiva. Sembra di leggergli il pensiero. “Ecco la pallina che torna dalla mia parte, devo fare in modo che vada dall’altra, dentro le righe”. E quando lo fa, quasi sempre, urla, perché ad ogni colpo l’avversario deve sentire che è presente.
Il massimo dell’esaltazione per un tifoso di David Ferrer è trovare un avversario che gioca allo stesso modo ma meglio. Allora la partita si riduce a scambi da fondo campo di sola resistenza. Non c’è possibilità di variazione: c’è da spingere più forte il diritto incrociato per poi ritrovarsi il lungo linea e incrociare dall’altra parte, pronti a scattare alla smorzata. Si palleggia, con scambi di dieci, dodici colpi che a questo ritmo, con questa ripetizione ossessiva intervallata dai venticinque secondi. È come affrontare un round di boxe. È lo sport che più si assomiglia a quelli di contatto fisico, del resto: uno contro uno, con una rete però a impedirlo, questo contatto. E i raccattapalle corrono quasi come loro perché il sudore cola copioso nonostante polsini e fascette per la testa e l’asciugamano dev’essere pronto.
Quando la partita cambia inerzia e c’è da rincorrere, l’avversario più bravo, quello che ha vinto Slam, sa bene che Ferrer non mollerà mai. Perché lui gioca al di là del punteggio. Almeno così sembrerebbe. Continua a piegarsi sui back spin velenosi che gli avversari gli indirizzano per stancarlo, per cercare di spezzargli il ritmo. E lui è sempre là, a rincorrere, sempre alla ricerca del punto per poi liberare il vamos. E intanto lui sbuffa e torna indietro, tre, anche quattro metri dietro la linea che divide il blu dal celeste. E poi ritorna avanti, sbuffando ancora e tirando un diritto con tutto il peso del corpo sopra. Incassa i favori del pubblico, sempre a patto che reciti la parte di quello che dia il fritto in campo, facendo sì che la partita sia combattuta, ma che poi si faccia da parte quando c’è il beniamino di casa, ché questo deve andare avanti nel torneo.
Anche dopo i suoi incontri, quando c’è da andare in sala stampa, lui arriva tutto trafelato. Di corsa, diremmo. Ha i capelli ancora bagnati e se li aggiusta con la mano prima di rispondere alle domande. Riconosce i meriti del suo avversario, che l’ha battuto, con molta umiltà. Risponde alle domande tecniche della partita, della superficie del campo, che giudica lenta. Le conferenze stampa di Ferrer sono sempre cortissime, almeno quelle inglesi. Con gli spagnoli, com’è ovvio che sia, le chiacchierate durano di più. Ma tutto il resto del mondo trova sempre un altro tennista da mettere in copertina. L’altro giorno era Murray, ieri era Wawrinka. Ferrer si è sciolto come neve al sole, palesando alcune sue debolezze quando si ritrova a battere qualcuno più forte di lui.
Non gli è bastato picchiare dall’inizio, trovare il break e costringere Wawrinka a sbattere la racchetta per terra quando steccava di rovescio. Stan ha trovato la quadratura del suo tennis proprio nel momento del bisogno e da lì in poi Ferrer è stato costretto a farsi da parte, progressivamente annichilito dai colpi sempre più potenti e sempre più precisi del suo avversario. Non gli è riuscito quello che è riuscito a Nadal, che con la sua solidità ha sgretolato la fragile mente dello svizzero. Stan si è ricomposto, ha cominciato a vincere anche gli scambi più lunghi e ha vinto la partita con un dritto uscito di qualche centimetro. Ferrer ha provato a chiamare il falco, ma li aveva esauriti e così è finito il suo torneo. O meglio, sono finite le sue chanche di arrivare in semifinale. Domani c’è un’altra partita da giocare e per lui non cambierà nulla. Si rimetterà a correre.