Abbiamo problemi con la gente.
By Claudio Giuliani Posted in spotting on 18 Novembre 2015 7 min read
Quando si comincia a seguire anche il doppio vuol dire che la stagione è veramente finita. L’abbiamo ignorato per tutto l’anno al pari della WTA perché, nella nostra concezione di tennis, questo sport esiste in quanto praticato dagli uomini. Il palleggio estenuante accompagnato dai grugniti femminili fa patta con il tennis giocato da gente che non gioca il singolare, è “roba” minore. Quelle (poche) volte che lo guardiamo in televisione è perché c’è in campo qualche giocatore di singolare che ci interessa, o perché c’è qualche italiano. Non a caso il 2015 è l’anno che ha riportato in auge il doppio maschile, ma solo all’interno dei nostri confini, grazie a Simone Bolelli e Fabio Fognini, vincitori dell’Open d’Australia – e pazienza se qualcuno ha disgraziatamente coniato l’appellativo di “Folelli”, crasi orrenda che serviva ai titolisti a corto di spazio sui giornali, peggio ancora di “Cichis”, altro neologismo coniato da Sara Errani e Roberta Vinci (ma almeno se lo sono date loro).
Così, arrivati alle finali ATP, si scopre che Marcelo Melo è diventato il nuovo numero uno del mondo, nel nuovo (insomma, vecchio di un paio d’anni) sistema di classifica che prevede che la classifica del doppio sia… singolare (!). Non c’è la classifica per le coppie (c’è solo la Race: la somma dei punti conquistati nei tornei), ma c’è quella dei tennisti presi singolarmente. E quindi i fratelli Bryan, i dominatori della specialità per anni, non sono più i migliori. Ma, intanto, sono in gara alle ATP Finals e chissà se vinceranno questo torneo.
Gli italiani tradizionalmente non fanno una gran figura alle Finals – mai vinta una partita – e Fognini e Bolelli non sono stati un’eccezione dato che sono finiti fuori dal torneo già il martedì. Dopo la prima partita persa al supertiebreak i nostri si sono trovati di fronte proprio i Bryan che sono nella stessa situazione, ma loro sono i Bryan. Quando iniziano a giocare i migliori doppisti statunitensi contro i migliori doppisti italiani, l’arena è mezza vuota. O mezza piena. Il pubblico sembra parteggiare per i Bryan, non fosse altro perché è uno dei pochi nomi conosciuti anche a chi non segue la disciplina e anche perché vincere oltre cento titoli in questa specialità non è proprio cosa da tutti, anzi proprio da nessuno, visto che ci sono riusciti solo loro tra gli uomini.
Dopo un paio di game della partita emerge chiaramente che in campo c’è solo una coppia di doppisti, e non è quella italiana. Bolelli e Fognini infatti sono due singolaristi che hanno scelto di giocare assieme. Lo si capisce quando colpiscono con i fondamentali: per gli italiani c’è da picchiare duro, sempre, perché nel singolare altrimenti sei costretto a rincorrere per tutto lo scambio. Gli americani invece impattano con le aperture corte, perché per loro è tutta una questione di tempo: non cedere campo rispondendo avanti, proiettarsi sùbito a rete dopo la ribattuta, cercare di intercettare i missili degli italiani sotto rete giocando volée e demivolée anche con l’aiuto dell’altra mano per tenere salda la racchetta.
I bianchi, gli italiani, vanno sùbito sotto nel punteggio contro i neri, gli statunitensi. Mike, il destro, quando attende con il naso sopra la rete il passante degli italiani, striscia compulsivamente i piedi sul cemento, cercando di generare ansia. È quel tipico atteggiamento che dà fastidio solo se sbagli il colpo, quando cerchi qualcosa o qualcuno a cui dare la colpa del tuo fallimento. Gli yankee allungano sul punteggio e cominciano il loro show fatto di esultanze spettacolari, camminate frenetiche a gioco fermo per scambiarsi tattica del punto e pacche sulle spalle. Soprattutto si sfiorano il pugnetto dopo ogni punto.
Bolelli e Fognini preferiscono battersi i palmi dopo i punti, anche quando uno dei due commette errori facili. Sembrano annoiati, Fognini più di Bolelli, e dall’altra parte della rete c’è un duo che non ha tempo da perdere. Dopo neanche mezz’ora il primo set è andato e lo spettacolo ancora non si è visto. Il pubblico segue la partita ma è distratto. Molti spettatori tengono il display del telefonino acceso; dopo ogni punto battono le mani con flemma, delle volte senza neanche distogliere lo sguardo dal telefono, come se fosse un riflesso pavloviano.
Sono pochissimi gli scambi che superano i tre, quattro colpi. Anche perché gli italiani non seguono mai il servizio a rete. Giocano il doppio come si gioca al circolo la domenica, battendo e scambiando da fondo campo cercando di far “entrare” a rete il compagno. Solo che questa tattica sembra proprio quella sbagliata contro i Bryan. Bob, infatti, neanche effettua un’apertura degna di un qualsiasi singolarista quando deve colpire: porta indietro la racchetta quel tanto che basta per sfruttare la forza dei fondamentali degli italiani, che pensano solo a tirare forte da dietro. Quelle rare volte che i quattro si ritrovano contemporaneamente con i piedi dentro il quadrato della battuta, il confronto a rete è impari. I riflessi dei Bryan sono di un altro livello.
Mentre il cronometro scorre veloce, continuiamo a cercare di capire perché non seguiamo il doppio. E ce lo ricordiamo. Gli scambi vanno via velocemente in un tennis che è già troppo veloce di suo. Per un punto spettacolare, uno di quelli che supera i dieci colpi fra ribaltamento di fronti, volée stoppate e rincorse di pallonetti, uso del campo in larghezza come mai possibile del singolare, ce ne sono almeno cinque di ordinaria bruttezza. Risposte sbagliate, risposte abbozzate concluse sempre con la volée dell’uomo a rete che colpisce come se avesse in mano una spada e dovesse decapitare il malcapitato di turno.
E intanto Mike continua a strusciare le suole delle sue Nike rosse per terra. Senza sosta. È a rete, a un metro dalla rete, e Fognini deve tirare quattro colpi per sfondare il muro americano. Fognini sembra il messicano alla frontiera e Mike Bryan gli rimbalza le sue cannonate di diritto. Fognini carica il diritto, Mike struscia i piedi per uno stridìo che è la colonna sonora dei punti giocati, Fognini colpisce e Mike rimanda. Mentre Bolelli e Bob Bryan si guardano fissi in volto a pochi metri di distanza, osservando con la coda dell’occhio la contesa in scena nel rettangolo del servizio adiacente, questa sequenza si ripete per ben quattro volte finché l’italiano non sfonda centralmente dopo una ribattuta dei Bryan che era già miracolosa di suo. In tutto ciò, a sorridere sono gli americani, che a momenti vincono il punto. I bianchi, i nostri, sono scuri in volto. Hanno accettato il ruolo di comparsa in campo e già prefigurano il periodo di vacanza, forse.
Si guarda l’orologio, si calcola quanto tempo c’è prima che scendano in campo Novak Djokovic e Roger Federer. Qualche italiano si fa ancora sentire dalle tribune quando Fognini (finalmente) chiude una bella volée di fioretto, ma è il niente. Dall’altra parte della rete, quella degli yankee, non si entra. Si gioca un altro sport in uno sport che è già un altro sport di per sé. Si guardano questi italiani brava gente e ci si chiede: ma come hanno fatto a vincere una prova dello Slam? Ci rispondiamo dicendo che non seguiamo il doppio, oltre alla WTA, ché il singolare maschile ci basta e ci avanza.
ATP Finals 2015 Bryan brothers Doppio Fabio Fognini Simone Bolelli