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Tennis di periferia: una settimana di passione

Lunedì
Il calendario vuole che questo lunedì sia Pasquetta, e quindi niente tennis. Il circolo dovrebbe essere chiuso ma neanche mi sono informato: Clotilde potrebbe farmi a pezzi se lasciassi lei e il piccolo Samu in un giorno di festa per il tennis. E forse farebbe bene, ma insomma. C’è da rientrare a casa dopo la gita in campagna, rilassarsi sul divano a vedere serie TV. Ma cresce l’attesa, perché per il giorno dopo è fissata la ripresa delle attività. In serata, arriva la convocazione per la Coppa Gabbiani: «Domenica ore 9:30 in casa contro Villa York A, confermi disponibilità?». Ovvio che sì. Intanto seguo il torneo di Miami in TV.

Martedì
Alle 16:15 è in cartellone la partita di allenamento con Maurizio, fissata già dal sabato. «Accompagno mio figlio allo skate park alle 16 e un quarto d’ora dopo sono al campo», mi aveva detto. «Io uscirò dall’ufficio presto, saranno tutti in vacanza», la mia risposta. Al mattino per i lunghi e ordinati corridoi dell’ufficio non si sentono né le stampanti né i tacchi dieci delle impiegate che sfilano. Sono praticamente tutti in ferie, ché iniziare a lavorare il giorno immediatamente dopo il dì di festa pare brutto, a meno che non sei alla base della food chain dell’ufficio.

Si lavora il giusto senza sprecare troppe energie mentali, quelle bisognerà usarle per la partita del pomeriggio. Che inizia male. C’è un bel sole e un vento leggero che si placherà subito. Con Maurizio facciamo sempre partita perché tanto lui non sbaglia mai e quindi non c’è bisogno di palleggiare per trovare il ritmo. Lo schema dei nostri match è il solito: io gioco con un ritmo alto per non farmi addormentare dal suo palleggio sfibrante e regolare, lui impazzirà correndo dietro i miei topspin come un tergicristallo, cercando di buttare tutto oltre la rete.

Sul punteggio di 1 a 1 perdo il servizio. Sembra che io non abbia voglia di soffrire, di accettare di scambiare quel po’ finché non arriva la palla buona per accelerare. Sbaglio praticamente due risposte a game, anche perché Maurizio non ha un servizio regolare: lo varia spesso, ha la seconda piatta che arriva veloce e ad altezze variabili. Io cerco il vincente sùbito o quasi, ma il mio diritto va spesso fuori o largo, ma sempre di poco.

Perdo nuovamente il servizio e lui sale sul 4-1 in venti minuti. Continuo a fare il mio gioco e non ci sto a perdere con questo punteggio. Con un po’ di fortuna recupero sul 2-4, di qui in poi non sbaglierò più. Maurizio corre da una parte all’altra del campo e rimanda tutto, solo che la palla torna da lui più angolata e più forte. Sembra che il suo campo sia più largo del mio; lui scivola lateralmente per rimettere la palla in campo mentre io ho il tempo per giocare solo diritti, caricarli sul suo rovescio finché non mi apro il campo o lo infilo in contropiede. Salgo 5-4 per me, poi 5-5 e chiudo 7-5 con un’altra accelerazione. Nel secondo lo aggredisco fin dal primo quindici. Salgo 3-1 e poi entrano i soci dell’ora successiva. «Vecchi di merda», sono le mie ultime parole prima di lasciare la panchina e il campo all’ennesima ora di tennis che non servirà a nessuno e che nessuno guarderà, al contrario della nostra partita.

Mercoledì
Giornata di riposo, io che di solito gioco nei dispari, mentre nei pari Clotilde ha la palestra. Ci sono gli Amorphis di passaggio a Roma e nel 2016 non ho visto ancora un concerto. Intanto organizzo le partite da qui a domenica. La squadra di calciotto deve allenarsi per la fase finale del torneo e stiamo organizzando per venerdì ma io non ho molta voglia: voglio giocare solo a tennis questa settimana. Blocco sùbito Edoardo per sabato mattina: ci alleneremo assieme per il match di domenica e lui mi dirà, più di Maurizio, in che condizioni sono. Scrivo a Enzo, un seconda categoria con cui ho già giocato, per venerdì. Il piano è fare venerdì e sabato, arrivando domenica pronto e lucidato. In serata timbro il cartellino da metallaro non prima di aver pensato un po’ se cambiare racchetta o meno. Decido che il tema sarà oggetto della giornata di giovedì.

I palazzi dietro i campi, loro fanno la radiocronaca del Derby
I palazzi dietro i campi, loro fanno la radiocronaca del Derby

Giovedì
Succede infatti che la Yonex ha tirato fuori il modello nuovo della racchetta di Wawrinka. Tutta nera poi, come piace a me, che infatti gioco con il modello tutto arancione.  Che fare? Comprarle non esiste: sempre meglio un weekend all’isola del Giglio che comprare due racchette. Vediamo se si può fare il contratto, fermo restando che c’è grande indecisione se passare a questo modello, l’evoluzione della precedente, che promette di essere già più giocabile. La giornata tennistica passa facendo un giro sui forum specializzati, effettuando improbabili calcoli di compravendita e controllare se qualcuno ha risposto ai miei annunci di vendita di vecchio materiale, roba che vorresti solo togliere dall’armadio di casa. Leggo delle recensioni di questa nuova racchetta in giro e cerco di rintracciare il negoziante di fiducia per avere il suo parere e capire come fare ad averle, se ne vale la pena. Un’altra giornata di tennis senza tennis. Dài ché domani si gioca.

Venerdì
Tra me e il tennis, giocato, c’è solo una giornata d’ufficio. Che inizia bene con un buffet gentilmente offerto dalla multinazionale che festeggia una nuova acquisizione nel mondo. I trolley dei lavoratori del lunedì-venerdì rotolano per i corridoi nella mattinata, mentre al pomeriggio rotolano le balle di fieno. Alle 17, dopo aver cliccato su mezza internet, si va verso il circolo.

Il seconda categoria è un 2.8 che gioca bene e ha quasi dieci anni meno di me. Iniziamo palleggiando al centro, poi sulle diagonali, di dritto e di rovescio. Tengo bene e dopo poco mi sono abituato al palleggio, che reggo arretrando di un metro rispetto alla solita posizione che tengo da fondo campo. Proviamo entrambi le volée e gli smash, ripassiamo per il centro per un palleggio e poi facciamo un set di partita.

Lui tiene il ritmo alto ovviamente e io inseguo i suoi topspin in laterale arrancando. Ma tengo bene al servizio, comandando gli scambi quando entra la prima palla.  Addirittura vado 2 a 1 e servizio, lui però recupera per bene e sale 5 a 2. Se al servizio non tengo la prima palla in campo lui mi risponde sempre in maniera vincente. Strappo un altro game con i denti, lottando e annullando setpoint, e perdo 6-3. Mi sembra una sconfitta onorevole. Chiacchieriamo mentre saliamo la scalinata verso gli spogliatoi, mi racconta che è tornato dal Belgio da un paio d’anni e che ora fa lo schiavo dentro uno studio di un’agenzia di servizi. Vuole rigiocare a tennis per bene però, allenandosi molto. Anche con me, dice.

Lo saluto anche se ci vedremo il giorno dopo, perché io giocherò con Edoardo e lui con Simone, un altro seconda categoria del circolo. Questo almeno nei piani. Edoardo però mi manda un sms in serata dicendo che ha il torneo e quindi sabato non potrà giocare con me. Scatta l’aggressione selvaggia a tutti i contatti in rubrica da 4.1 in su. Mando contemporaneamente tre inviti a giocare sabato mattina alle 11 su Whatsapp, col copia e incolla. Risponde il primo, Pietro, un nuovo contatto che mi ha dato il maestro Gianni. Dico subito sì. Arrivano altri due sì in sequenza: dico che ho già risolto e tanti saluti. Si gioca anche sabato.

Sabato
La giornata inizia male perché il capitano della Coppa Gabbiani manda un sms che è da imprecazione immediata: «La partita di torneo è spostata al pomeriggio, alle 14 e 30», invece che alle 9 e 30 iniziali. Che si gioca a Roma alle 15 di domenica? Esatto, il derby. Insisto per far spostare la partita, anticipandola di almeno un’ora, ma niente. Do comunque la disponibilità perché mi sono allenato per giocare questa partita fin da martedì e non c’è derby che tenga, visto che sono un ex fomentato del calcio, oramai. Vado al circolo, vado per segnare il campo ma c’è un problema: il mio nuovo avversario, Pietro, non è socio del circolo. E quindi non può giocare, è “esterno”. Chiedo alla tipa della segreteria se possiamo fargli fare un’ora da ospite. «No no, assolutamente», risponde inorridita, come se le avessi chiesto di spogliarsi nuda sul campo. L’unica soluzione è prenotare il campo coperto, e così facciamo. Dovremo pagare e a me, che sono socio, questa cosa non va giù.

Adiacente al mio circolo ce n’è un altro, comunale, con altri cinque sei campi da tennis. In molti del mio circolo ci giocano, l’atmosfera è popolare e si riesce a giocare con più calma e anche per più tempo. Andiamo e troviamo un campo libero. Giochiamo lì, perché fuori ci sono oltre 20 gradi e giocare al coperto sarebbe roba fare un torto al climate change.

Giochiamo su un campo un po’ “sgarrupato”, fra reti arrugginite e un po’ divelte e l’erbaccia che cresce intorno. Ma si gioca bene, tranquilli. Pietro ha qualche anno meno di me e fisicamente è alto e magro. Copre molto bene il campo e rimette praticamente tutto. Io gli prendo le misure e salgo subito 5 a 2. Perdo un paio di game ma poi chiudo 6-4 il primo e vado in vantaggio anche nel secondo prima che, dopo un’ora e un quarto di buon allenamento, uno dei gestori ci “cacci” perché serve il campo per il torneo. Torniamo al mio circolo, dove ci eravamo spogliati, per una doccia. A Miami giocano le donne e quindi non c’è tennis da seguire in TV, ma tanto la domenica è vicina.

Domenica
Si va al circolo al mattino, ché il figlio ha il baby nuoto. Va spedito oramai, nuota senza la cinta che lo aiutava a sostenerlo a galla. Mentre lo aspetto guardo il primo match della squadra di serie A2 femminile. Doppi falli diffusi, palle lavorate che viaggiano metri sopra la rete, smash ciccati clamorosamente e volée approssimative: questo è il livello di questo tennis, anche se ogni tanto si vede qualche scambio decente da parte di una delle giocatrici del mio circolo, una di quelle “attractive”, come direbbe l’ex direttore del torneo di Indian Wells Moore.

Prendo il sole sui gradoni del circolo in compagnia di altri soci, commentando questi match. In molti mi accreditano di una vittoria contro una di queste giocatrici. «Dieci anni fa penso di sì, ora chissà», rispondo. Un pranzo con un po’ di pasta, e poi raggiungo il circolo rapidamente. Sono tutti tappati in casa perché alle 15 c’è Lazio-Roma.

Scendo in campo quando manca poco all’inizio della partita, su uno dei due campi alle pendici di palazzi di oltre dieci piani che mi faranno la telecronaca del derby. Roma è deserta, silenziosa. Sulle tribune ci sono poche persone: un paio dei compagni di squadra del circolo avversario, e il giudice arbitro del nostro circolo, un giocatore di mezza età vestito con jeans, camicia celeste e Ray-Ban a goccia a contornare il viso perennemente abbronzato dal sole di chi gioca tutti i giorni o quasi.

Il mio avversario dice che ha giocato anche la mattina un altro torneo, vuole mettere le mani avanti. Però sa il fatto suo, avrà qualche anno più di me e tocca bene la palla. Specie con il rovescio. Sento la palla uscire dalla sua Babolat in maniera molto delicata; avrà la tensione delle corde molto bassa perché, specie con il rovescio in back, la sua palla è molto profonda con poca fatica. Io inizio bene, tengo il ritmo alto, lo sposto, e salgo in vantaggio di un break. Conduco 3 a 1 e batto la palla per terra le solite quattro volte prima di caricare il movimento del servizio quando un boato investe il circolo. Siamo a Roma, dentro Roma, non può che essere la Roma ad aver segnato. Ci fermiamo entrambi e guardiamo le tribune. Un compagno di squadra del mio avversario scruta il telefono, si alza in piedi e dice due parole: «El Shaarawy». «Vamos», dico io. Tengo il servizio e vado 4 a 1. Chiudo 6-1 poco dopo senza problemi, penso che se tengo questo ritmo mi godrò il secondo tempo della partita nella club house del circolo.  

Clotilde (caffeine)mi aspettava per una festa, le ho scritto che avrei tardato a metà del secondo set, mentre Maurizio mi chiedeva il risultato. Lei ha risposto così.
Clotilde (caffeine) mi aspettava per andare assieme a una festa di bambini col piccolo, le ho scritto che avrei tardato a metà del secondo set, mentre Maurizio mi chiedeva il risultato. Lei ha risposto così.

Nel secondo set lui cambia modo di giocare. Comincia a correre praticamente su tutte le palle. Conquista un break di vantaggio e sale due a zero. Io inseguo, ma questo break mi costerà il set. Lui gioca molto bene con il rovescio tagliato e con il diritto mi fa spostare spesso in diagonale, o mi passa quelle due volte che scendo a rete seguendo dei suoi backspin corti. Perdo sicurezza nei miei colpi, commetto qualche gratuito di troppo e non riesco a impensierirlo nei suoi game al servizio, anche perché batte bene e ha un’ottima percentuale di prime palle – è alto circa un metro e novanta, questo lo aiuta di sicuro. Intanto un altro boato, questa volta però dalle tribune nessuno ci dice che è successo. Sul 4 a 3 per lui ho la mia chance, una palla break. Gioco bene il punto e poi provo una smorzata, considerato che lui gioca un paio di metri dietro la linea di fondo. Esce di poco, parità. Sale 5 a 3 ma io non demordo: 5 a 4.

Sto giocando malino, i miei colpi non sono più così angolati e stretti, cerco la profondità ma a lui non dà fastidio, perché si appoggia bene. Mi sento all’angolo, ho smarrito il filo di Arianna che potrebbe tirarmi fuori da questo labirinto fatto di backspin profondi sul mio rovescio e diritti incrociati dall’altra parte. Lui batte bene e sale 40 a 15. Ma io ci sono. Annullo il primo setpoint con un rovescio vincente incrociato, e poi gioco bene anche il secondo costringendolo all’errore. Parità, e poi palla break. Lui annulla bene e mette a segno tre punti di fila: 6-4 e terzo set. Mentre cammino verso il mio angolo ecco il terzo boato, minore: questo dovrebbe essere un gol della Lazio.

Il set decisivo inizia male, perché perdo sùbito il servizio. Dalle tribune Edoardo mi dice di non mollare, ma poi fila via dentro il circolo a vedere il derby. Il doppio femminile di serie A2 è terminato, e ora sui gradoni del circolo non c’è praticamente nessuno. Il compagno di squadra del mio avversario è già sceso in panchina per incitarlo. Ci credono. Mentre siedo da solo sulla mia panchina guardando il giudice immobile che prende il sole sulle tribune, li sento che parlano di tattica. Io mi asciugo il sudore, sono calmo e vorrei solo capire come uscire da questo angolo nel quale mi sono ficcato da solo. Ne ho chiaramente le possibilità, devo solo realizzare come.

L’acqua che ho portato da casa si è riscaldata, è un’ora e mezza che giochiamo, ma riesce ancora a refrigerarmi. Uso l’asciugamano per la prima volta in stagione. Due soci del circolo vengono a giocare sul campo adiacente, uno di loro è il nostro terzo giocatore di squadra. Mi dice di stare calmo, ma con tono dimesso. Io penso a rimanere concentrato, perché non voglio perdere una partita contro questo giocatore ampiamente alla mia portata.

Torno in campo e riesco a recuperare il break di svantaggio, tengo il servizio ed è 2 a 1 per me. Riprendo fiducia, cambio atteggiamento mentale e mi convinco che sarò in campo a farlo correre a destra e a sinistra finché lui non mollerà, anche perché fisicamente io sto meglio di lui.

Il game seguente è decisivo per le sorti della partita. Serve lui e io vado sotto 15-30, fallendo la possibilità di conquistare due palle break con un diritto sparacchiato di fretta. Sul 30 pari però pesco il Jolly. Conduce lui lo scambio, gioca un diritto incrociato e io corro disperatamente sul mio lato destro. Rimetto un diritto centrale e corto, una palla perfetta per il mio avversario, che colpisce in lungolinea in sicurezza, senza prendere troppi rischi, scendendo a rete.

Io sono distante  almeno dieci metri dalla palla e mentre corro decido che non giocherò un colpo difensivo. Non alzerò un pallonetto né cercherò un backspin di rovescio per fargli giocare una volée sotto la rete: avrebbe tutto il tempo di chiudere il punto. Corro verso la palla e inizio a caricare il rovescio alzando la testa della mia Yonex arancione. Compio i passi giusti e piazzo il piede destro come cardine a un metro dalla palla. La racchetta è alta dietro il livello delle spalle, libero il movimento e impatto leggermente più in alto dell’anca, in lungolinea.

Il gesto è vigoroso, liberatorio, la pallina fila via diritta davanti a me, in lungolinea, mentre allineo il piede sinistro di fianco al destro per bilanciare la torsione del busto. È un punto stupendo, alla Stan, e urlo un  liberatorio «Too good», io che di solito gioco in silenzio o commiserandomi mentre mi guardo i lacci delle scarpe. Mi faccio i complimenti per il punto da solo, praticamente. Lui è un po’ scorato, e perde anche il punto successivo. Io oramai non sbaglio più, lo sposto in larghezza e lui cede definitivamente, salgo 4 a 1.

Cambiamo campo dopo la solita sosta ai box per bere acqua. Ci saranno oltre venticinque gradi, la terra è rosso satura e il campo andrebbe bagnato leggermente. Torno in campo e vinco un altro game sul suo servizio, salendo 5 a 1. Sul 15-0 servo da sinistra sul suo rovescio, lui risponde col solito backspin sul mio rovescio, trovando un’ottima profondità. Arretro di poco mentre mi sposto verso sinistra, con i piedi sul corridoio. Carico bene il rovescio, faccio scendere la racchetta e poi la tiro su sbracciando con forza. Il lungolinea è terrificante in quanto a velocità. L’avversario batte il palmo della sua mano destra sulle corde della sua Babolat. Chiudo a zero e ci stringiamo la mano.

Si complimenta, dicendomi che l’ho fatto correre molto e che non è abituato a questa palla. Ringrazio, saluto, e tiro diritto fino alla Club House. Incrocio il padrone del circolo, «Che hai fatto?», «Ho vinto», «Bravo», ed entro dentro. La TV è presa d’assalto, sono tutti seduti a guardare gli ultimi 5 minuti di Lazio-Roma. Sono sul 3 a 1 per la Roma. Perrotti prende palla e avanza indisturbato, tira, gol: 4 a 1. L’esultanza è moderata, la partita era già finita. «Perde pure il Milan», fa uno. «Allora tocca piasse pure Mihajlovic adesso», commenta saggio l’unico laziale presente in sala. Finisce, esultanza, sorrisi, gioia.

C’è Nino, uno degli anziani del circolo, gran romanista, che mi racconta la partita. Con un sunto perfetto mi dice dei pali e delle traverse prese da una parte e dall’altra dalle due squadre, si complimenta per la mia vittoria e mi congeda calorosamente, come fa di solito. I campi sono deserti, rimane da fare la doccia e rilassarsi per aver comunque mantenuto l’imbattibilità, e più che altro gioire per aver evitato un doppio che nessuno avrebbe voluto giocare. Si rigioca sabato o domenica prossima, e da domani c’è un altra settimana per prepararsi.


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