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Tennis di periferia: vincere per la domenica

Ad un certo punto mi sono preso una pausa. Ero seduto sulla panca di plastica bianca giusto alla destra del seggiolone del giudice di sedia, ovviamente senza nessuno seduto sopra, avevo vinto il primo set ed ero ampiamente in vantaggio nel secondo. Di solito, al cambio campo, io e l’avversario rimanevamo seduti circa trenta secondi, giocando al “chi rientra per primo in campo”, come se tornare prima dell’avversario in campo significasse qualcosa, una maggiore prontezza a recuperare lo sforzo fisico o la voglia di allungare nel punteggio. In quel momento, durante una delle nostre pause, sono rimasto seduto più a lungo. Ho deciso che me la sarei presa comoda, che mi sarei goduto il caldo del sole sul viso, che avrei vissuto ogni secondo di quella pausa così breve che ogni volta finisce a nostra discrezione. In precedenza avevo fatto le solite cose: mi ero riposato sulla panca bianca, avevo bevuto un paio di sorsi di acqua fresca, avevo rivolto uno sguardo alla racchetta per verificare che tutto fosse a posto e usato l’asciugamano per togliere via il sudore. In quel momento, invece, mi sono preso una pausa da questi gesti meccanici ma funzionali. In quel momento, quando ho poggiato la schiena sulla panca bianca, ho respirato profondamente e mi sono fermato a riflettere. 

Ho alzato gli occhi verso i soliti gradoni di cemento grigi della tribuna di fronte a me. C’era il solito giudice di sedia, i compagni di squadra del mio avversario, qualche papà che aspettava al sole che il figlio finisse il turno a nuoto e un paio di soci del club. Sugli altri gradoni, quelli dei campi 3 e 4, quelli centrali e i più agognati dai soci, si stava giocando un match di serie B maschile, e fra match di quarta categoria e match di seconda non c’era partita a livello di pubblico. Guardavo queste persone distrattamente, senza mettere a fuoco nessuno, come in un un campo largo cinematografico leggermente sfocato. Ero sul campo, e mi stavo divertendo. Il piccolo di casa era in piscina a sguazzare felice, la madre nuotava qualche corsia più in là nella stessa piscina con altre mamme di altri pargoli. Il sole era alto e piacevole e nella mia testa non c’erano pensieri negativi. In quel minuto o poco più seduto su quella panchina bianca ho passato in rassegna il mio ultimo anno di vita,  fra lavoro, famiglia e affetti, come se ne stessi tracciando un bilancio. Non so come, sono riuscito a pormi in quello stato meditativo, ma mi sentivo in pace. 

Nella pausa di una partita pensavo che nel pomeriggio mi sarei goduto Roma passeggiando fra le viuzze di Monti, fra un giro all’Urban Market e un gelato all’angolo di via dei Serpenti, in barba al blocco del traffico. Il piccolo si sarebbe eccitato per aver preso il treno della metropolitana – povero incosciente – e io avrei passato una bella giornata in famiglia al Palazzo delle Esposizioni, a provare la Caravaggio Experience o ammirare Cristo e la moltitudine di Botero. Passato presente e immediato futuro condensati in un minuto o poco più, finché l’avversario mi è passato davanti chiudendo questo transfert. Allora io sono tornato ai gesti meccanici: ho chiuso la bottiglia di acqua fresca che mi ero portato da casa, mi sono asciugato per bene le mani o e mi sono alzato per continuare questa partita.  

Mi incammino verso le tribune per raccogliere le palline, visto che tocca a me battere. Il giudice sta prendendo il sole con i suoi Ray-Ban Aviator. Incrociamo lo sguardo e lui mi mostra il pollice alto, giusto di fianco, tenendo la mano bassa per non farsi vedere dai nostri avversari, seduti alla sua sinistra. Per realizzare la domenica che avevo visto nei miei pensieri di quel cambio di campo, c’era una partita ben avviata da condurre in porto.

La domenica mattina era iniziata con la mia richiesta, a compagni e avversari, di scendere in campo per primo, visto che avevamo un solo campo a disposizione per i due singolari e l’eventuale doppio degli ottavi di finale della Coppa Gabbiani. Incassati i due sì, ho iniziato a palleggiare con questo ragazzo con gli occhiali che sembrava un po’ Benoit Paire. Colpiva con il braccio molto vicino al corpo, senza molto allungo, però aveva una buona efficacia. Anche il rovescio, che eseguiva ad una mano e che sbagliava ogni tanto, era comunque un colpo abbastanza sicuro. Aveva una pessima seconda palla, per nulla “effettata”, e aveva scaldato le volée con il naso sopra la rete. Finiti i cinque canonici minuti di palleggio ho deciso che avrei vinto agevolmente questa partita: il divario tecnico era troppo in mio favore.

Uno a zero per me, sùbito break, 2 a 0 e poi 2 a 1. Vado sul 3 a 1 salvando una palla break con una gran prima di servizio, lui tiene e accorcia sul 3 a 2. Giochiamo con traiettorie basse, io non ho ancora trovato la “quadratura” di questo match, cioè capire per bene cosa fare per portarlo facilmente dalla mia parte. Lui cerca di giocare con traiettorie basse, spostandomi, e io sto al gioco, replicando. Salgo 5 a 2 facilmente e chiudo 6-2 al terzo set point. Torno sulla panca e penso a una sola cosa: vincere il primo game del secondo set.

Un suo compagno di squadra lo chiama sulla balaustra della tribuna, i due confabulano. Il giudice arbitro del nostro circolo mi dirà poi che il consiglio è stato questo: «Non puoi metterti a fare a pallate con lui, perderesti. Devi giocargli palle senza peso e aspettare i suoi errori». Serve lui, io rispondo bene e vado avanti 1 a 0, che diventa 2 a 0 e poi 3 a 0 in dieci minuti. Gioco bene, rispondo forte e alto sul suo rovescio e poi entro con il diritto dall’altra parte, spostandolo. Vado a sedermi su quella panchina con due break di vantaggio nel secondo parziale, il match è praticamente finito.  

Quando rientro mentalmente nella partita dopo quella pausa sulla panchina il punteggio è 6-2 3-0 in mio favore: non devo fare altro che passerella. Tengo a zero il mio servizio, 4 a 0, e poi realizzo che non ho ancora chiuso un rovescio lungolinea à la Stan in questa partita. Sullo 0-30 arriva la palla giusta, un diritto scagliato alla mia sinistra, non troppo alto né troppo angolato, forte il giusto. C’è mezzo metro per mettere la palla in lungolinea di rovescio, ad uscire. Io carico il colpo, impatto, e la pallina fila diritta proprio dentro quel mezzo metro di campo. Lui si allunga, vedo le gambe allargarsi e la sua racchetta tentare un disperato aggancio. Non ci arriva, neanche sporca il mio vincente bellissimo: «too good». Dalle tribune arriva qualche tiepido applauso. Chiudo 6-0, dopo un cambio di campo veloce, incasso il suo «Bravissimo Claudio», ci salutiamo e vado sulle tribune a prendere il sole.

Stringo mano, raccolgo complimenti per una partita facile, e batto il cinque a Maurizio, mio compagno che scenderà in campo contro il loro numero 1, “un maestro” ci hanno detto alla vigilia, come a spaventarci. «Ma tu potresti fare il doppio?», mi dice Maurizio mentre scende le scale verso il campo, minacciando il piano domenicale che ho progettato con la famiglia. «Non ce ne sarà bisogno, pensa a vincere ‘sta partita», gli rispondo. Questo “maestro”, si dimostrerà un giocatore mediocre, un 4.1 poco mobile e con una tecnica di gioco approssimativa. Il mio avversario, un 4.2, era nettamente più forte. Un Maurizio pur contratto dalla tensione andava sùbito in vantaggio per 5 a 2. Io saluto tutti e vado a fare la doccia. Avviso gli altri compagni che intanto vado a casa, e poi torno a limite per il doppio, che già sento il piccolo che urla “papà” a più riprese per individuarmi nel capannello di persone che si è creato sulle tribune. Clotilde sbuffa quando le dico che, se Maurizio perde, devo tornare a fare il doppio, anche perché Edoardo si è dato malato alla vigilia della gara. Ma siamo tutti fiduciosi che il tennis si fermerà all’orario giusto anche questa domenica, all’ora di pranzo. Mentre guardo la pasta rosolare dentro il forno sento il telefono vibrare. È un messaggio WhatsApp, un pollice alto di Maurizio. Non aggiunge altro, non ce n’è bisogno: è domenica.


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