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Arrivederci Roma

Dove vai se il Foro non ce l’hai?
Passeggiando nel viale del Foro italico in direzione stadio Olimpico si arriva all’altezza del campo Pietrangeli, con l’ombra che cala da Monte Mario da un lato e il Tevere quieto dall’altro. Il verde di Roma domina la nostra vista e allora ti chiedi: caro Binaghi, ma dove vorresti spostare questo torneo? Le statue di marmo guardano con fierezza le pallate dei tennisti che giocano sul campo interrato più ambito del mondo, i pini alti trattengono la pericolosa anidride carbonica del lungotevere, lo stadio Olimpico domina la scena del profano di fronte al sacro di San Pietro, a distanza di una passeggiata: è il tennis bellezza, e in Italia si gioca a Roma.

E allora come si può solo pensare di spostare un torneo del genere da quello che lo rende così speciale? La foto di Ana Ivanovic con dietro il Colosseo avrebbe lo stesso impatto se ci fosse la Madunina al posto dell’arena più famosa del mondo? Discorsi politici quelli di Federazione e Coni, lo sappiamo tutti: minacciano per ottenere qualcosa, una Piazza del Popolo dove fare il sorteggio nella confusione generale, più mezzi per portare la gente al Foro e via dicendo. E se in conferenza stampa c’è Fognini che dice che il problema delle sue sconfitte romane non è certo Roma, meno male che arriva Nadal, che sappiamo tutti essere ruffianissimo nei confronti della città che ospita ogni torneo dove gioca, a dire che «se non è speciale Roma non so quale posto è speciale». Questa volta gli crediamo.

Poi certo, l’impianto è piccolo e i campi d’allenamento non sono molti, ma in pochi si arrabbieranno se Juán Monaco sarà costretto ad allenarsi in uno dei tanti circoli al di là del Tevere, a pochi minuti di macchina, perché i tennisti più importanti si accaparrano tutte le ore disponibili per gli allenamenti. E Monaco non è l’unico. Certo, l’arida Indian Wells ha campi di allenamento anche per gli spettatori del circolo, ma altro non è che un agglomerato di cemento senz’anima piazzato in una delle tante aree desertiche americane. Vuoi mettere col Foro Italico?

Il Pietrangeli poi, è il campo dove trionfa la democrazia del pubblico a Roma, lo stadio dove puoi sederti proprio alle spalle del giocatore, su un gradone di marmo bianco, dove non ci sono settori, dove non ci sono tubi Innocenti e anonimi seggiolini di plastica. Non ci sono neanche i secchi della spazzatura. Però, al cambio di campo, mentre i giocatori si riposano sulla panca, ti viene naturale alzare gli occhi al cielo e guardarti intorno. Statue a parte, non è un panorama esportabile. Se vuoi vederlo, devi da venì a Roma.

Lo stadio Pietrangeli, un campo dove vorremmo giocare un po' tutti
Lo stadio Pietrangeli, un campo dove vorremmo giocare un po’ tutti.

Le faccine di Dolgopolov
La cosa bella di guardare un match di Alexander Dolgopolov a bordo campo, a pochi metri da lui, riparati giusto dai vasi di fiori che delimitano la tribuna Stampa del Pietrangeli dal campo, è guardarlo in faccia. Si potrebbe seguire l’andamento della partita, capire chi ha fatto punto, chi sta conducendo nel risultato, solamente guardandolo in faccia. Tira un rovescio vincente in lungolinea, impattando completamente di piatto, magari dopo averne tirati altri cinque in sequenza incrociata, rovesci che passano talmente bassi sopra il punto più basso della rete, e guardi la sua faccina soddisfatta. Si compiace, perché Dolgo, purtroppo per i risultati, è uno che gioca per sé e anche per il pubblico. Cerca il bel punto, la smorzata che torna indietro non appena rimbalza nell’altra metà campo, per fare poi la faccina «questa cosa tu non la sai fare». C’è poi l’espressione di quando l’avversario, in questo caso Dominic Thiem, chiude pure lui un bel punto. L’ucraino guarda con stupore il segno della palla e fa quella faccia come a dire: «Mah, sarà». E poi si rimetterà sùbito alla ricerca di un colpo per la faccina «questa cosa tu non la sai fare». E pazienza per il risultato.

Dolgopolov riempie sempre tutti gli stadi dove gioca
Dolgopolov riempie sempre tutti gli stadi dove gioca.

La solitudine del brutto anatroccolo
Al giovedì, finalmente, in molti ci siamo ricordati che in questo torneo c’era anche Tomas Berdych. Sul circuito oramai da più di dieci anni, con quella finale Wimbledon persa contro Nadal oramai unico lontano ricordo di una onesta carriera, il tennista ceco è riuscito a fare notizia ancora una volta per una sua sconfitta. Ma la notizia non è certamente quella di aver perso, a questo siamo abituati, specie nelle fasi finali del torneo. La novità è che ha perso per 6-0 6-0 contro David Goffin, bravo sì, ma non certo gesù in terra santa. Con i match programmati nell’arena Grandstand, quella dove serve un biglietto supplementare per chi ha l’accesso solo ai campi ground a Roma, il pubblico non si è praticamente accorto del torneo del ceco, che pure è arrivato al giovedì. E non se ne sono accorti neanche i giornalisti. Nessuno che si è interrogato su cosa sia successo per far sì che un top 10 perdesse senza neanche fare un game. In sala stampa, ho chiesto a un giornalista: «Ma alla fine si è saputo che cosa aveva ieri Berdych in campo?». «Boh», la sua laconica risposta. Forse Tomas ha disilluso talmente tanto tifosi e giornalisti che oramai fa notizia come l’impiegato che timbra il cartellino.

(E il giorno dopo questo mesto torneo Berdych finirà per separarsi dal coach Vallverdu: aveva ragione Panatta)

Contro il combined
Ero ragazzino quando venivo al Foro Italico. Conoscevo un signore che mi faceva entrare gratis, a patto che mi presentassi alle 9 del mattino. Capirai, cosa vuoi che fosse questo piccolo sacrificio per un quattordicenne malato di tennis? All’epoca, anni ‘90, avevo lo zaino con i panini della mamma e il Corriere dello Sport, da cui ritagliavo il programma della giornata per capire quali match seguire. Questo signore faceva il giudice di linea. Lui e la sua combriccola accolsero me e mio fratello, ci diedero l’acqua e ci fecero “imboscare” al Foro nel momento in cui gli inservienti, di solito verso le 11 del mattino, cacciavano via dall’impianto la gente che era entrata con i cancelli aperti per vedere gli allenamenti dei campioni. Godevo del torneo maschile, del Pietrangeli e dei campi ground, specie i primi giorni di gioco. Volevo vedere da vicino i campioni, e il centrale mi interessava relativamente. Tanto poi lì non potevo entrare. Con i maschi era bellissimo, con le femmine meno. Perché il torneo, all’epoca, si giocava sulle due settimane: prima il tabellone maschile e poi, dal lunedì seguente, il torneo femminile. Manco a dirvelo, il torneo maschile aveva le tribune piene, quello femminile no. I campi ground erano deserti, sul Pietrangeli si stava larghi e sul centrale ancora di più. Tutto questo panegirico per raccontarvi che sulla Grandstand Arena c’erano 100 persone a seguire il match perso dalla Errani. E ce n’erano ancora meno per i quarti di finale fra Doi e Begu. E ce n’erano poche, qualche centinaio, per salutare la Pennetta al Pietrangeli, una cerimonia raffazzonata e malamente programmata verso le otto di sera mentre sul centrale c’era il grande tennis. In sala stampa, un giornalista romano spocchioso faceva battute in proposito – neanche tanto: sembrava convinto – paventando due possibili soluzioni per incontri con scarso appeal di pubblico: farli disputare sulla lunghezza di un unico set a 9, con il killer point, oppure far giocare questi incontri in uno dei tanti circoli oltre il ponte Armando Trovajoli. Provocazioni ovviamente. Insomma.

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