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La farfalla e l'elefante

Nishikori b. Murray 1-6 6-4 4-6 6-1 7-5
Il butterfly effect è quella cosa per cui una piccola variazione nelle condizioni di partenza può produrre grandi variazioni a lungo termine. A New York il battito d’ali di una farfalla non ha prodotto un uragano dall’altra parte del mondo, ma ha in qualche modo influito sull’esito del secondo match in programma sul centrale degli US Open. Andy Murray e Kei Nishikori stanno giocando il terzo game del quarto set. Murray ha vinto il primo e il terzo, Nishikori il secondo. Sembra tutto già scritto ed infatti la partita più attesa della giornata non è la loro, sebbene sia quella più nobile, almeno in termini di classifica. Dopo la finale degli US Open 2014, Nishikori non è più riuscito a impensierire i più forti nei tornei principali. E così nessuno si aspetta che il giapponese riesca a battere lo scozzese, il tennista del momento.
Murray ha due palle break a disposizione. La prima se ne va perché Nishikori ha deciso di attuare una tattica insolitamente aggressiva, ben consapevole che da fondo campo non ha chance contro un ribattitore perfetto come Murray. Sulla seconda Murray gioca una risposta profonda, ma quando Nishikori sta per colpire, un rumore interrompe il gioco e costringe Marija Cicak, la giudice di sedia, a far rigiocare il punto. Murray è incredulo, ma il regolamento non si discute, si applica: finisce che Nishikori tiene il servizio, inaugurando una serie di 7 game a 0. È bastata una farfalla, pare, a far partire quel beep ed è bastata una piccola e banale distrazione per rimettere Nishikori in partita. «Non ho deluso nessuno, tantomeno me stesso», ha detto Murray e considerando la sua storia nei tornei dello Slam, non è una dichiarazione così distante dal vero.

Sarebbe piuttosto disonesto ricondurre tutto il match all’episodio della farfalla, comunque. Murray ha servito malino e lo ha ammesso senza problemi in conferenza stampa. «Non penso di aver perso perché ho risposto male. Il problema è che non ho tenuto il servizio quanto avrei dovuto, questo ha fatto la differenza». Gli ultimi due turni di risposta, ad ogni modo, sono stati tra i peggiori che Murray abbia giocato. Sul 5-4 a suo favore non ha vinto nemmeno un punto, sbagliando anche delle comode risposte sulle tenere seconde di Nishikori. Con le spalle al muro nel turno successivo, sul 6-5 per Nishikori, ha fatto probabilmente peggio, vincendo un solo punto, solo perché Nishikori ha commesso un doppio fallo.

Forse non è un caso, perché il Nishikori visto in questo torneo è il più aggressivo mai visto in uno Slam. Quantomeno, è stato un crescendo, a seconda delle difficoltà che gli presentava l’avversario. Con Benjamin Becker le discese sono state 13 in quattro set (di cui 7 vinte); con Kachanov, altri quattro set e 13/17 a rete; con Mahut ancora quattro set e 13/19 a rete; con Karlovic prima e unica vittoria in tre set, 17/20 a rete; con Murray, infine, un eccellente 27/39 a rete in cinque set. E forse non è nemmeno un caso che i set che ha perso con lo scozzese siano anche stati quelli in cui è andato peggio a rete: 5 su 8 nel primo, 3 su 5 nel terzo; 7 su 10, 5 su 5 e 7 su 11 in quelli che ha vinto. Per fare un raffronto con il miglior match giocato a livello Slam, quello con Djokovic agli US Open di due anni fa: Nishikori andò a rete solo 12 volte in tutta la partita, ancora meno di Djokovic.

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Andy Murray quest’anno ha conquistato la finale in tutti gli Slam precedenti gli US Open.

Nishikori è stato bravo a rimanere fedele al proprio piano, anche se a sentir lui pare quasi che i suoi ripetuti serve and volley siano stati prodotti più dalle sensazioni in campo che dalla tattica preparata fuori. «Non so perché ho fatto così tanti serve and volley, ma me la sono sentita e ho visto che funzionava». Sul 4-3 è andato a servire in un turno delicatissimo e si è fatto rimontare da 40-0. Colpa anche di una maldestra volée di dritto sul 40-30 e di un rischiossimo serve & volley sulla palla break, prontamente trasformata in un punto da Murray. A quel punto sembrava che Nishikori si sarebbe sciolto da un momento all’altro. Invece il game del 5-4 è stato l’ultimo vinto da Murray agli US Open 2016. Nishikori ha tenuto a 0 per il 5-5, ha aggredito Murray in risposta e sulla palla break non ha tremato: palla corta giocata senza rischiare e poi una volée difficile e fortunata su cui Murray non ha potuto fare nulla. Lendl, con al collo un’improbabile collana comprata probabilmente in una spiaggia della Romagna negli anni ’90, tradiva qualche emozione biascicando qualcosa che sarà stato certamente incomprensibile mentre Murray sfogava la sua rabbia colpendo il paletto della rete con la racchetta. Cinque punti più tardi Nishikori festeggiava la seconda semifinale in carriera in uno Slam: pensavate fossero di più, vero?

Wawrinka b. del Potro 7-6(5) 4-6 6-3 6-2
Il ritorno di Juan Martín del Potro nelle fasi finali dei tornei è paragonabile all’elefante che entra nella cristalleria: i vecchi equilibri del tennis, l’oggettistica esposta e immobile da anni, si rompono. L’argentino ama gli US Open, il torneo che gli ha concesso un invito non tanto perché l’argentino ha vinto qui nel 2009, la giustificazione ufficiale per mettere a tacere i malumori del giovane statunitense escluso di turno, quanto perché DelPo sta giocando bene e privare questo US Open della grande novità tennistica del 2016 sarebbe stato un suicidio sportivo.

Juan Martín ha voglia di arrivare in fondo, e allunga sul 4-1 nel primo set, complice la solita partenza assonnata di Stan, che poi fiuta la bella serata, la notturna, il posto in semifinale da raggiungere in uno Slam dove non c’è neanche più lo spauracchio Murray, e allora scatta il click nella sua testa. Il suo tennis torna ad avere la continuità di quando ha voglia di giocare, quando Stan torna lo Stan vincitore di due Slam. E recupera, Stan, va sul 4-4, e i due si spaventano tanto che decidono di arrivare al tiebreak. Il dritto di Stan, il termometro del suo tennis, rimane sempre dentro il campo, è pesante; quello di del Potro, il colpo definitivo secondo alcuni, già dimentichi dello svizzero in pausa eremita, spesso sbatte contro la rete. Stan allunga, si fa riprendere per colpa di uno sconsiderato approccio a rete sul dritto dell’avversario, ma un dritto facile di del Potro finisce in rete sul 5-6: il primo set è svizzero.

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Wawrinka si giocherà contro Nishikori la posizione n.3 del ranking

Torneo dopo torneo, del Potro sta associando il suo nome ai risultati, alla classifica che torna decente e che gli permette di competere senza inviti, allontanando quella parola che per molto tempo lo ha accompagnato, rimpianto. I rimpianti per non aver visto in campo un protagonista del tennis che fu, quello prima dei Fab Four, e che ora serve maledettamente perché un paio di questi sono in aspettativa. Stan si riprende una pausa a metà del secondo set, sul 3-3, quando cede il servizio. Scaglia una palla a rete con violenza, un gesto di stizza post break. Si riprende, però, e riaccende l’interruttore quando DelPo serve per il set. I suoi back di rovescio, praticamente piatti e con poca rotazione all’indietro, spizzano la riga di fondo, lasciando l’argentino incredulo di fronte al risultato dei challenge. Salva una palla break, Juan Martín, e sul successivo 40-40 fa il punto con un rovescio coperto che non sembra quello di uno reduce da due operazioni al polso. L’argentino pareggia il conto dei set, i quarti di finale non gli bastano.

Un paio di rovesci lungolinea di Stan, quando sono due ore che si gioca, svegliano il pubblico dal torpore dell’ora, mezzanotte circa a New York, le sei in Italia. Sembra incredibile, ma l’Arthur Ashe non è pieno, visto che i posti più in alto dello stadio di tennis più grande del mondo sono tutti vuoti. Anche i due in campo sembrano dormienti: tengono i servizi con relativa facilità, non prendono rischi e sembrano aspettare un segnale divino per decidere chi andrà avanti 2 set a 1. Dopo sette turni in cui sono stati vinti appena quattro punti in risposta, arrivano quattro palle break quando del Potro va a servire sul 3-4. Sull’ultima Wawrinka chiude con il lungolinea di rovescio, e punta il dito alla testa. Un gesto pavloviano oramai, che compie senza un preciso motivo e a cadenza random. Wawrinka non sta giocando benissimo, e il dito alla tempia, comunque, è il prologo al “come on” urlato in maniera cafona giusto prima di chiudere il set. DelPo è stanco, si muove come un elefante fiaccato dalle tante partite giocate dopo un lungo periodo di stop.

con i quarti di finale a NY del Potro tornerà nei primi 70 ATP
con i quarti di finale a NY del Potro tornerà nei primi 70 ATP

Stan va sul 3-0, in tribuna c’è chi dorme e chi intona il “let’s go delPo let’s go”, che ha sostituito il “let’s go Roger let’s go”. L’argentino è la novità, e pazienza se usata, i jeans a zampa d’elefante che tornano di moda, e un po’ tutti ci siamo stufati dei soliti noti a vincere i tornei. Nel 2014 ha giocato 10 incontri, nel 2015 solo 4, mentre questa contro Stan è la partita numero 32 nel 2016. Non è abituato a questi ritmi, non si aspettava di arrivare così lontano sia alle Olimpiadi sia a New York. «Tutto quello che ottengo nel 2016 è un bonus, ripartirò nel 2017 con un allenatore e un preparatore atletico e vedrò quello che devo fare», ha detto alla vigilia del torneo.


New York ama del Potro, del Potro ama New York.

Wawrinka chiude 6-2 il quarto set e la partita, vinta senza neanche giocare benissimo, un buon segno in vista della semifinale con Nishikori. Juan Martín finisce in lacrime l’ultimo game, perché il pubblico intona cori per lui, anche se ormai non ne ha più. Lui applaude, è arrivato a un passo dalla prima semifinale Slam dopo quella thriller del 2013 a Wimbledon, quando lottò per quasi cinque ore contro Djokovic, il suo ultimo scampolo di vero tennis prima del calvario in sala operatoria. «Avevo pensato di smettere», ha dichiarato nella sala stampa degli US Open, ma invece eccolo qui di nuovo tra noi. E con lui c’è anche Nishikori. Sono due novità non tanto nuove, la vera novità è che a tutti va bene così.

Andy Murray Juan Martin del Potro Kei Nishikori Stan Wawrinka Us Open


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