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Ossessione

Djokovic ha battuto Federer dopo tre ore. E il demone è riapparso.

Djokovic ha battuto Federer dopo tre ore. E il demone è riapparso.

Chi non si ricorda della propria prima volta? Tutti, io credo. Era una domenica mattina di gennaio, i vetri erano appannati perché fuori c’era un freddo tremendo mentre dentro casa toccava stare a maniche corte per via di quella stufa a legna che d’inverno non conosceva riposo. Non ebbi il tempo di pranzare, la partita iniziò alle nove di mattina e finì verso le due, ma quando l’ultimo dritto finì lungo ero sazio, ma in un modo diverso, un modo nuovo, ero sazio di tutto quel tennis. Fu un’indigestione che mi lasciò l’amaro in bocca ma la ricordo ancora con tenerezza, del resto non è così con tutte le prime volte?

Pensai che per un pezzo ne avrei avuto abbastanza, di quelle indigestioni, invece poco dopo cominciai a mangiare sempre più voracemente, senza nemmeno masticare bene, inghiottendo ogni boccone come se fosse l’ultimo, addentandolo, strappandolo, tritandolo, frantumandolo, scindendolo, deglutendolo, giù per la faringe, passando per la laringe e poi per l’esofago, infine digerendolo. E ancora, ancora, ancora, un bolo di scambi infiniti, di volée sbagliate, di percentuali di servizi, di frasi abbozzate e mai terminate.

Non me ne stancavo mai e chi mi conosceva fatica a riconoscermi: che cosa ci troverai di tanto interessante, si domandavano, e io non sapevo come spiegarlo, il mio amore, e mi dicevo che è proprio questa l’essenza dell’amore, se è amore non sai spiegarlo, ma dentro di me temevo fosse solo una bugia, e che matto lo fossi davvero. Come giustificare tutto quel tempo buttato senza dover ammettere che la mia bulimia copriva qualcos’altro? Ed ecco allora che subentravano le mezze verità, i sotterfugi meschini, le spiegazioni poco convincenti.

Passai svariati anni in questo modo: il mio stomaco si era dilatato, la mia laringe si era ormai abituata a quel lavoro incessante, la paziente epiglottide lavorava alacremente per permettermi di mangiare più che potevo, in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo mi trovassi. Ogni partita di tennis era per me cruciale, non potevo staccare lo sguardo fino a che l’ultimo punto era stato giocato; quando i due rivali si stringevano la mano a rete, allora la mia tensione era appagata, potevo finalmente sospirare e chiudere gli occhi, concedere un po’ di rilassamento alle pupille, massaggiandole coi polpastrelli, preparandole alla prossima partita, che sarebbe venuta di lì a poco.

Avevo smesso da tempo di spiegare l’origine della mia fame tossica a chi mi interrogava: ero stanco di vedere quegli sguardi poco comprensivi, e quando incontravo qualcuno con la mia stessa dipendenza, pensavo di trovarmi di fronte a qualcuno che stava male davvero, qualcuno che aveva passato la fase del controllo da un bel pezzo, e li commiseravo, ascoltando le loro patetiche spiegazioni mentre sorridevo obliquamente, in maniera beffarda, come fa un genitore quando il figlio pretende di spiegargli come si dovrebbe stare al mondo. Non c’è nulla che ti faccia aprire gli occhi, quando sei messo così, nemmeno specchiarti nei tuoi stessi errori, per quanto simili essi siano.

Un giorno, però, capii che era tutto finito: non so quando avvenne, se fu un processo repentino o lunghissimo, se fu merito mio o se prima o poi era scritto che sarebbe dovuta andare così, non so se me ne resi immediatamente conto. Fatto sta che la fame era sparita. Meglio, non era sparita del tutto, ma all’improvviso mi bastava poco per essere sazio, così poco che i pranzi ingordi del passato mi sembravano quasi un inganno della memoria e li ricordavo con un misto di vergogna e incredulità. Mi dicevo che erano stati solo un sogno, che quello non potevo essere io. Guardavo ora quelle poche partite con un sentimento di distacco e sufficienza. Non importava chi tifassi, quanto durasse l’incontro o se mi ero divertito o meno: bastavano pochi bocconi ed ero già sazio, mi dedicavo ad altro e non pensavo più a mangiare, lo stomaco non mi mandava quei brontolii irrequieti che tanto familiari erano diventati nella mia routine.

Non faticavo ad ammettere a me stesso che mi sentivo un uomo diverso, e quando ripensavo ai giorni della bulimia, di quell’amore tossico che mi aveva consumato l’anima, potevo finalmente evitare di rabbrividire, scacciando quella sensazione scomoda di aver gettato del tempo che non avrei più potuto recuperare.

L’altro giorno, mentre bighellonavo in un sabato pomeriggio autunnale come tanti altri, ho acceso la televisione. Non avevo intenzione di uscire per via dei primi rigori di novembre, ma nemmeno volevo inebetirmi davanti allo schermo per poi realizzare che il sole era tramontato da un pezzo. Ho cominciato a vedere la partita, anzi la partita, la replica di una sfida che avevo visto chissà quante volte, una sfida che mi aveva fatto soffrire e palpitare come nessun’altra, o quasi, ma che ormai non suscitava in me alcun interesse. Vaccinato dalla ricorsività, sapevo che mi sarei annoiato ben presto.

Ma non è andata così: scettico all’inizio, sorpreso successivamente, intrappolato dopo nemmeno un’ora, ho sentito per la prima volta una sensazione che ritenevo ormai smarrita per sempre. Quel demone era ancora lì, nascosto da qualche parte, assopito ma non vinto, pronto a mettere le catene alla mia volontà e a irretirmi ancora una volta. Mi sono fatto avviluppare come la vittima più docile si arrende al suo predatore, ben conscia di non avere possibilità di fuga. Ho mangiato come non mangiavo da anni, proprio come la prima volta, senza darmi il tempo di masticare, ingoiando avidamente sapendo che l’amilasi, la lipasi, la fosfilasi e la tripsina avrebbero presto ripreso a digerire gli amidi, i trigliceridi, i fosfolipidi e i treptidi come se nulla fosse, con la stessa efficienza di una volta, come se la mia liberazione non fosse mai avvenuta. Quando finisce la partita, tre ore e due minuti dopo il primo punto, mi sento sazio, ma un brivido corre lungo la schiena. Non so dove mi trovo e non so spiegarmi cosa sia successo: o forse sì, e sto solo facendo finta di non saperlo.

ATP Parigi Bercy 2018 Novak Djokovic Roger Federer


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