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La prima volta di Naomi Osaka

Naomi Osaka fa parlare facilmente di sé, è quello che si può definire un personaggio e per caratterizzarne i tratti bisogna iniziare dalle sue origini. E dunque: sua madre è giapponese e sembra averle trasmesso l’indole timida, pacata, a tratti scostante. Dal padre, che proviene da Haiti, sembra invece aver preso la struttura fisica: un metro e ottanta centimetri di altezza è una vera anomalia per gli standard orientali. Questo cocktail fusion conferisce ad Osaka una certa peculiarità.

Come tutte le mirabilia che si rispettino, un oggetto esotico che rappresenti il frutto di due culture diverse mantiene un fascino misterioso per entrambe queste culture, che l’osservano con equidistante ammirazione. Osaka è studiata tanto dal mondo occidentale, curioso di capire in quale misura sia presente la componente orientale, quanto proprio dal mondo orientale, ovviamente per il motivo opposto. In Giappone, alcuni non la considerano nemmeno una nativa, un po’ come succede a Maria Sharapova. Osaka ha lasciato il Giappone a 3 anni ed è cresciuta in Florida. Soltanto di recente ha imparato a parlare la lingua di sua madre. Quando per la prima volta si fece notare sconfiggendo Elina Svitolina agli Australian Open 2018, disse che aveva iniziato a studiare giapponese per poter rispondere alla stampa del suo paese, che da poco aveva cominciato a prestarle attenzione. Nell’edizione di quest’anno ha invece preso l’abitudine di rivolgere qualche frase in giapponese per i fan che la guardano da casa.

Il momento più difficile della partita: la fine del secondo set.

Non soltanto per il miscuglio etnografico, che manda in confusione un po’ tutti quanti: Osaka non passa inosservata anche a causa della sua personalità. Quello che colpisce di lei è il suo atteggiamento così poco convenzionale, ma che non sembra frutto di una scelta consapevole. È forse oramai conosciuta la sua incapacità di parlare in pubblico e in special modo quella di fare un discorso a fine partita. Si potrebbe pensare che, alla stessa maniera per cui una maschera finisce per fagocitare parte dell’attore che la interpreta, Osaka esageri la sua goffagine per risultare spiritosa. Se si guardano in sequenza i discorsi che ha fatto in seguito ai suoi ultimi tornei vinti, però, è inevitabile percepire un’angosciosa sensazione di difficoltà che Osaka prova davanti ad un microfono. Probabilmente preferirebbe giocare altri cento match piuttosto che rilasciare delle dichiarazioni alla stampa. Prima del torneo di Brisbane ha chiesto ad un giornalista se non avesse niente di interessante da domandarle, mentre a Melbourne, dopo aver sconfitto Svitolina ai quarti non riuscì a trattenersi e dopo aver snocciolato qualche banalità disse all’intervistatore sul campo che tutto quello che desiderava era uscire dal campo perché faceva troppo caldo.

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“Honestly”

Nonostante tutto ciò, c’è stato un momento nella vita di Naomi Osaka in cui la tennista e la persona sono passate in secondo piano, contro la sua stessa volontà. E sfortunatamente quello era anche il momento più importante della sua carriera, la vittoria del suo primo titolo Slam. Durante la finale degli US Open 2018, il suo trionfo è stato totalmente oscurato dalla polemica tra l’arbitro di sedia, Carlos Ramos, e la sua avversaria, Serena Williams. Osaka giocò brillantemente quella finale, e probabilmente l’avrebbe vinta anche se non fosse avvenuto quell’incidente, ma non bastò per non macchiarne l’esito. Il pubblico rumoreggiò durante la premiazione, Serena dovette calmare gli animi e chiedere rispetto per la vincitrice, Naomi scoppiò in lacrime e si sentì quasi in colpa di aver raggiunto quel risultato straordinario, anche perché era convinta che i fischi del pubblico fossero rivolti a lei e non all’arbitro.

A seguito di quell’indecente esperienza, tutti si augurarono che il futuro prossimo riservasse ad Osaka la possibilità di sperimentare presto cosa significasse vincere ancora una volta un titolo dello Slam, quel poter alzare le braccia al cielo con la consapevolezza di aver compiuto un’impresa, di aver vinto sette match consecutivamente affrontando le migliori giocatrici del circuito, di entrare nell’albo d’oro di un torneo che include tra le vincitrici alcuni dei migliori nomi della storia del tennis. Nessuno si sarebbe però aspettato che l’opportunità arrivasse così presto, già nello Slam successivo, agli Australian Open. In questa edizione Osaka è entrata in tabellone con la testa di serie numero 4, sconfiggendo nella strada per la finale Magda Linette, Tamara Zidansek, Su-Wei Hsieh (l’avversaria che è andata più vicina a batterla, dato che si è trovata avanti di un set e 4-2 40-0 nel secondo), Anastasia Sevastova, Elina Svitolina e Karolina Pliskova.

Figuriamoci se Anne Wintour si lasciava sfuggire un’amicizia di questo tipo.

In finale si è trovata contro Petra Kvitova, che per tanti motivi sembrava un’avversaria insormontabile: la ceca tornava in una finale Slam dopo cinque anni, dopo quella vinta a Wimbledon 2014, e con una percentuale di finali vinte vicina all’80%; non solo, ma l’affrontava in un periodo di forma strabiliante, una striscia di vittorie consecutive che proseguiva dal successo del trofeo di Sydney; in più, era la prima volta che ci giocava contro, ed essendo Kvitova mancina, adattarsi al suo gioco poteva rappresentare un’ulteriore difficoltà per una tennista che aveva nel curriculum appena dieci partite nel circuito maggiore contro una tennista mancina. Ma non solo il lato sportivo, Kvitova poteva vantare un altro fattore fondamentale per la sua vittoria: aveva una storia alle spalle; forse qualcosa di più, un vero miracolo sportivo. La ceca fu infatti aggredita nel dicembre 2016 e ne uscì gravemente ferita alla mano con cui impugnava la racchetta. Tornare a giocare una finale in uno Slam era qualcosa di più di un semplice avvenimento.

https://twitter.com/AustralianOpen/status/1089094433780498433
Uno dei punti decisivi: il 2-0 nel tie-break del primo set.

Nonostante tutto ciò, nonostante la pressione di giocarsi anche la posizione numero uno della classifica mondiale WTA, nonostante i tre matchpoint consecutivi sul servizio dell’avversaria e nonostante abbia servito per il match sul 7-6 5-4 salvo poi perdere successivamente il secondo set, Naomi Osaka è riuscita a vincere questi Australian Open, dimostrando di avere non soltanto il tennis da campionessa ma anche la mentalità. Sono pochissime le tenniste che sono riuscite a vincere entrambe le prime finali Slam giocate, nomi dalla grande risonanza quali Evonne Goolagong, Chris Evert, Hana Mandlikova, Venus Williams e Jennifer Capriati. Naomi Osaka è anche la tennista con meno titoli in carriera ad occupare la posizione numero 1 della classifica mondiale. Soltanto tre trofei, ma uno più pesante dell’altro: Indian Wells, US Open ed ora Australian Open. 5000 dei 7030 punti con cui ora è in vetta al ranking vengono da questi tre tornei.

Finalmente Osaka è riuscita a provare tutto quello che ha dovuto forse reprimere nella finale degli US Open. Le lacrime, la commozione, la celebrazione: tutto vissuto in maniera spontanea e senza alcuna ombra. L’inchino all’avversaria prima della stretta di mano a rete, il discorso che “mi ero appuntata delle cose ma mi sono scordata”, i complimenti di rito all’avversaria (“Sono onorata di aver giocato con te”), quei sorrisi imbambolati di chi non capisce realmente cosa sta accadendo intorno. È tutto come se fosse davvero la prima volta, ma in realtà è la seconda, e probabilmente non sarà l’ultima.

Australian Open 2019 naomi osaka


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