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Si è ritirata una tennista

Maria Sharapova ha smesso di essere una tennista ben prima del 2020. 

Maria Sharapova ha smesso di essere una tennista ben prima del 2020. 

Trentasei titoli, 5 slam, 21 settimane al numero 1, le WTA Finals: Marija Jur’evna Šarapova – o, se siete di quelli che sanno le lingue, Мария Юрьевна Шарапова – nata in Siberia il 19 aprile 1987, nel distretto di Oktjabr’skij e in una città che vive di petrolio e gas naturale si è ritirata il 26 febbraio del 2020. Lo ha fatto con una lettera, commovente perché tutte le storie che finiscono commuovono e anche noi ci siamo commossi, e senza pensare ad un’ultima partita, l’ultimo smash, il saluto al pubblico. Nessun arruffianamento di quelli che piacciono tanto a noi, lontana provincia dell’impero USA, dove di queste cose ci campano e dove nel 1996, a soli 9 anni, è stata trascinata la futura campionessa di Wimbledon. 

In questo ambiente sul quale misteriosamente i servizi sociali non accendono riflettori, è normale togliere per due anni una bambina a sua madre, così insieme al padre e dietro consiglio di Martina Navratilova, per una volta troppo ciarliera, Marija diventa Maria in Florida in una di queste accademie gestite dal guru dei guru, che ha sin troppe citazioni per fargliene una anche noi. 

Un’anonima sconfitta contro Donna Vekic in Australia, così se ne è andata dal tennis Maria

Fino a quel giorno di luglio a Wimbledon la storia è poco interessante, la solita trafila, le solite sconfitte, le solite attenzioni. A Londra arriva da numero 15, si capisce che diventerà forte, ma a 17 anni non si può mai sapere. Maria supera due turni, al terzo tutti entrano in fibrillazione perché incontrerà Daniela Hantuchova, numero 38 del mondo. La ragazza siberiana è però una furia, un ciclone che si abbatte sulla slovacca che racimola quattro game. Nel turno successivo c’è Amy Frazier, che perde lottando punto su punto. Già, lottando, si intravede una caratteristica che accompagnerà Maria in tutta la carriera, quella di essere una lottatrice che neanche Nadal e con ben altra compostezza. 

Nei quarti Ai Sugiyama le strappa il primo set del torneo e sul 4-5 annulla tre set point. Ma la sensazione è che la giapponese sia una diga piena di buchi che l’acqua travolgerà da un momento all’altro. Un parziale di 8 game a 1 chiuderà il match e la Sharapova comincia a conoscere quello che l’aspetterà da lì a poco: pochi vogliono parlare di tennis, uno le chiede se i suoi grugniti siano come quelli di James Brown e se sceglie i punti in cui emetterli. Sconcertata, la diciassettenne se la cava con una certa brillantezza dicendo di non conoscere il re del soul e non poter apprezzare il paragone ma che, aggiunge con una certa perfidia chissà quanto volontaria, “è fantastico essere in semifinale sul centre court”.

L’aspetta Lindsay Davenport, che in poco più di mezzora si trova 6-2 2-0 e con due volte la palla per il break del tre a zero. Sono due rovesci violentissimi, uno incrociato e uno lungo linea, a comunicare che la partita non è ancora finita. Maria va sul 2-1 e un leggera pioggia regala ad entrambe un’oretta di riflessione. Al ritorno in campo Lindsay è quella di prima, Maria no. Mentre la statunitense continua a colpire con la violenza di prima, sorprendentemente la palla torna indietro più spesso, e a volte anche più rapida di com’era partita. Il rovescio della russa diventa incontenibile e la partita sembra diventare identica a quella dei quarti di finale, con le crepe che si allargano rapidamente nel muro della Davenport. La statunitense si trascina al tiebreak, arriva sul 3 pari, poi viene travolta, allo stesso modo della Sugjyama. 

Quello che non ci si aspetta è che il 6-1 con il quale ha chiuso quarti e semifinale diventi il modo di iniziare la sua sua prima finale Slam contro Serena Williams. Il furore di Serena è palpabile ma semplicemente non riesce mai a sfondare, organizza una difesa nel secondo set aggrappandosi al servizio ma nel nono game un lob, un passante che le piega le mani e una scivolata nell’erba mettono Maria in condizione di servire per il match. Ha diciassette anni, non vede la Siberia da chissà quanto, in tribuna c’è solo il papà, all’assenza di mamma si è abituata, il primo match point vola via col dritto ma nel secondo Serena spedisce la palla sotto la rete. Le mani al volto, la scalata allegra come si è allegri a 17 anni, l’abbraccio con le lacrime, la telefonata alla mamma. 

3 luglio 2004: a 17 anni Maria Sharapova vince Wimbledon

Lì, da quella telefonata, inizia la vicenda Sharapova. La compagnia telefonica le propone la sponsorizzazione, il marchio si vende e come, e il motivo è inconfessabile, il rovescio c’entra poco, la grettezza del mondo invece no. Maria cerca e trova il suo equilibrio, gioca a tennis ma se è un’immagine che volete eccovela, ma la pagherete cara, carissima. Diventa l’atleta più pagata di qualche biennio e vive una doppia vita: l’agonista del campo, sempre terribilmente avvinghiata alla palla e la donna d’affari, che chiude contratti su contratti. I numeri diventano vertiginosi ma Maria non si distrae e allora ci pensa lo sport a vendicarsi. 

Maria diventa numero 1, poi vince a New York e a Melbourne poi la spalla dice che può bastare, meglio firmare contratti che tirare servizi. Ma la dottoressa Hyde non ha mai il sopravvento, perché la lottatrice sbuffa, grugnisce, perde ma gioca, gioca e gioca. Se non può servire come prima servirà in un altro modo, il tennis è più del solo servizio. Nonostante stia quasi più fuori dal campo che dentro, Maria vince anche a Parigi, giocando sostanzialmente con un colpo in meno delle avversarie, e nel frattempo il suo appeal non cala, forse cresce, si prende gioco dello star system inventandosi – lei o chi per lei cosa importa? – delle caramelle che vendono al village, lì sopra la collina, alla fine di Church Road. 

Il suo mondo è ovunque, negli spogliatoi non è la star ma che tipo di solidarietà si va cercando tra gente che vive per superarsi? Maria non è simpatica, che tradotto significa che non fa quello che noi vogliamo che faccia, ti prende in giro, pretende di avere degli interessi diversi. E nel frattempo si infortuna, la spalla non le da mai tregua, polso, avambraccio, coscia. 

Nel marzo del 2016 convoca una conferenza stampa e dice che lei questo meldonium l’ha preso sempre, è la WADA che dice una cosa e poi un’altra. La squalificano, le tolgono qualche contratto e quindici mesi dopo non ci sono occhi che per lei, che non è più la più forte ma a Stoccarda ci andrebbero tutti a vederla. Le compagne di spogliatoio mugugnano, perché tutte quelle wild card? Mica è amica nostra. Le sue partite sono più commoventi di prima perché si capisce che perderà, come può vincere in quelle condizioni? Maria prova un’ultima carta, va da Piatti, che è un brav’uomo e chissà se le dice qualcosa del tipo “Se proprio devi proviamo” ma niente migliora. 

A Melbourne gioca contro Donna Vekic, vince sette game ma forse più di quella brucia la sconfitta di Brisbane, 7-6 al terzo, quando non è più tennis ma lotta, quella che lei vinceva sempre, quella che non vincerà mai più. Allora addio tennis, è vero mi mancherai, ma Marija Jur’evna Šarapova – o, se siete di quelli che sanno le lingue, Мария Юрьевна Шарапова – è una lottatrice, cosa volete che sia?   

Maria Sharapova


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