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Off season

Finisce il tennis del 2020, anche in periferia.

Finisce il tennis del 2020, anche in periferia.

La palla rimbalza centrale subito dopo la T del servizio dalla mia parte di campo, è già sul mio dritto senza che io debba spostarmi troppo, faccio dei piccoli passettini di aggiustamento, porto la racchetta dietro e poi ruoto rapidamente le spalle stando bene attento a chiudere il movimento con una frustata di polso subito dopo l’impatto, una frazione di secondo dopo vedo la palla rimbalzare per terra, saltare veloce e infrangersi sul telone senza che l’avversario la tocchi: la partita che aspettavo da giorni è finita. E l’ho vinta. 

Ottobre e novembre sono stati mesi intensi, alla ricerca di punti per la classifica FIT, una sorta di ranking che certifica più il livello di ossessione e la distanza da una sorta di equilibrio mentale che il valore del tennis. Ne è provat anche lo sguardo di mia moglie quando provo ad attaccare discorso sulle mie partite, ogni volta che lo faccio le si legge in volto un bel “ma perché ho sposato ‘sto deficiente?”. 

E insomma dopo aver raggiunto la finale e una semifinale in due tornei ho raggruppato i punti necessari per mantenere la classifica di inizio anno e anche, addirittura, per salire di un ulteriore gradino. Ho vinto talmente tante partite che ad un certo punto, facendo i conti, ho realizzato che non solo ero promosso, ma con altri cento punti avrei raggiunto una classifica mai centrata prima d’ora. Il limite però era stretto: c’erano solo un paio di settimane per giocare prima della scadenza FIT. Mi iscrivo quindi a due tornei. 

Molte volte salire di classifica è solo una questione di fortuna, e quindi di sorteggio. Perché il calcolo della classifica FIT ricalca un po’ quello dell’ATP: a seconda del ranking che hai si sommano un certo numero dei migliori risultati dell’anno. Nel mio caso questo numero è 12, le mie migliori vittorie dell’anno in termini di classifica dell’avversario. Io avevo bisogno di rimpiazzare qualche vittoria contro gente classificata peggio di me, che quindi concorre al mio ranking con pochi punti, battendo qualcuno forte almeno quanto me o, meglio ancora, più forte. 

Nel primo torneo affronto al primo turno un pari-classifica. Non c’è spazio per incertezze: devo vincere per sfidare al turno seguente un giocatore meglio classificato di me. Giochiamo in collina, e quel giorno a Roma c’è un vento fortissimo. Ci danno delle palline usate, con poco pelo, ci destinano su un campo circondato da sola rete metallica senza teli sopra: non c’è riparo alcuno dal vento e poi la visibilità è quantomeno incerta. Da una parta di campo la palla si perde visivamente fra case e colline dietro il campo, dall’altra nel campo adiacente dove giocano altri. Forse è il peggior campo dove ho giocato quest’anno e ci sto giocando nelle condizioni peggiori dell’anno. Non piagnucolo, è uno schifo per tutti e due giocare e così quindi mi metto d’impegno a cercare di battere questo ragazzino. 

Roma vista da fuori il GRA

Il primo set è imbarazzante: la palla non esce mai dal campo in lunghezza se si gioca da un lato, si ferma e torna indietro se si gioca dall’altro; le varianti sono sterzate improvvise in seguito a folate, stecche, lisci, palle scentrate a ripetizione: non è tennis, è solo una gara di culo. Riesco a vincere 6-3 il primo set, nel secondo il vento si placa un po’, finalmente possiamo giocare un po’ a tennis e vinco di nuovo per 6-3. Sono molto soddisfatto per averla sfangata. 

Il giorno dopo ho di fronte un sessantenne, non posso perdere, mi dico. C’è un bel sole, il campo è uno di quelli buoni e il vento lavora da remoto, come me del resto. Faccio i primi otto punti della partita; lui impatta molto bene, è un tennista di quelli vecchia scuola ma a me basta spostare la palla per fare punto. Me ne convinco talmente tanto che mi accorgo di aver preso sottogamba il match, abbasso inconsapevolmente il ritmo e lui comincia a fare game, anche perché si è scaldato, corre, e praticamente gioca di controbalzo sulla riga di fondo. È uno di quei giocatori che mi danno fastidio, quelli che mi fanno giocare di fretta e che mi costringono a cambiare qualcosa del mio gioco. Gli altri sono quelli forti. Fortunatamente, sto servendo bene in questo periodo: faccio molti punti in battuta, sia con la prima che con la seconda e chiudo il set per 6-3 con qualche patema di troppo.

Nel secondo set lui va addirittura in vantaggio; oramai sto giocando malino, gli scambi sono pochi perché lui accorcia subito i punti venendo a rete o facendo smorzate; allora gioco “in protezione”,  come avevo sentito dire una volta al Foro Italico al coach di Salvatore Caruso che stava rischiando di perdere contro uno più scarso di lui durante un match di qualificazione. Significa fare le cose che sai che non sbaglierai, colpire al 60/70% della forza, usare le rotazioni, non cercare di angolare troppo: giocare in maniera ordinata. Dovrebbe bastare e in effetti basta: 6-3 per me, altri punti in cascina.

Nel turno seguente in teoria dovrei avere un classificato migliore di me invece gioco contro un pari classifica. Batterlo non mi porterà molti punti. Lui è un pallettaro mancino, ci persi anni fa al termine di un match combattuto. Rispetto ad allora io gioco meglio, mi bastano due game per capire che lui è rimasto sempre uguale: il primo set è un mio assolo, un 6-1 senza praticamente un errore. Poi cala l’oscurità, e l’umidità. Le palline diventano pesanti, umide, si gonfiano, non camminano più e il mio gioco è depotenziato. Ad un certo punto mi rendo proprio conto che non riesco più a fare un punto secondo una precisa idea. Colpisco piatto e la palla si ferma comunque nella sua metà campo, lui alza sempre di più traiettorie sul mio rovescio e io non riesco a trovare contromisure. Adesso la partita è pari. Inseguo sempre nel punteggio finché sul 5-5 non fa il break. Litighiamo pure per qualche incitamento su errori dell’altro, lo facciamo entrambi. Vince 7-5 e mi straccia al super tiebreak, che io praticamente non gioco. 

Rosico parecchio, ma non in ottica classifica, proprio perché non mi va di perdere con uno più scarso di me. Non adduco mai scuse quando perdo, me la prendo sempre e solo con me e faccio sempre i complimenti all’avversario: un pallettone lento sul mio rovescio ha la stessa dignità di un vincente di dritto per come intendo io questo sport. La terza categoria poi è la sublimazione della regolarità, del non sbagliare come mantra e chi, come me, cerca di giocare tutti i punti in maniera propositiva, cercando vincenti e righe perché incapace di aspettare che l’avversario regali il punto, in queste condizioni novembrine è penalizzato. Almeno così me la racconto, così riesco a non pensarci più dopo qualche giorno di pausa che mi prendo facendo fitness al parco in attesa che inizi l’altro torneo, l’ultimo, quello decisivo. Infatti il conto aggiornato dei punti dice che mi mancano solo 30 punti alla doppia promozione. 

I colori del tennis

La gara decisiva si gioca alla Rome Tennis Academy, casa Berrettini quando è nella Capitale, ed è un torneo rodeo. Funziona che i set si vincono a 4 game, con il killer point sul 40-40 ed eventuale tiebreak sul tre pari. Supero il primo turno perché un pari-classifica non si presenta, il giorno gioco contro un ragazzino 3.1 ed è tutto molto semplice: se lo batto sono promosso, altrimenti si rosica. 

Il giorno mi ero allenato con la formula rodeo, non ne ho mai giocati di tornei con questa formula. Sto in buone condizioni, mi mancano partite giocate in continuità però sto bene fisicamente visto che preferisco saltare qualche sessione di tennis in favore del fitness all’aperto che si fa ogni giorno al parco vicino casa, i personal trainer romani devono pur guadagnarsi da vivere con le palestre chiuse. Il mio, cioè quello di mia moglie, fa delle lezioni di una cosa che ho scoperto chiamarsi tabata, cioè tanti esercizi cardio, poco recupero e una marea di squat: un bucio de culo infinito in pratica. Le mie gambe ringraziano sentitamente sul campo. 

Quando arriva il matchday io sono sveglio già dalle sei. Sono giorni che aspetto questa partita, sono chiaramente vittima in questo momento di quella ossessione della classifica. Ma altrimenti perché fare tornei? Agonismo, questa è la risposta, il niente in palio capace di trasformare gioco e persone, togliere ore di sonno e influenzare stati d’animo per giorni per colpa di uno sport che già per natura qualifica un vincitore e uno sconfitto anche nella partita del circolo.  

Alle 10 del mattino si respira un’aria tennistica diversa all’Accademia. Diversa dai soliti circoli, dove di solito a quest’ora ci sono i doppi degli ottuagenari. Qui ci sono teenager che alzano bilancieri ultra carichi, che sudano agli ordini di preparatori fisici e chi è in campo prova a colpire un passante incrociato con l’avversario a rete 100 volte di fila cercando di metterla per 100 volte nello stesso angolo basso. Non c’è un tennista del mio pianeta in campo, qui ci sono solo ragazzi e ragazze che provano a fare del tennis un mestiere. 

Inizio a palleggiare e scopro che lui è mancino. Bestemmio. Cerco di scrollarmi di dosso la tensione: “Gioca e sticazzi di quel che viene, almeno finiamo ‘sta tiritera” mi dico. Serve lui, imbrocco un paio di risposte come si deve e riesco a fare il break. Forse lui ne rimane scosso. Mi rendo conto di avergli tolto qualche sicurezza, anche perché quando batto io vado subito sul 2-0 d’autorità. Sto giocando bene, non lo faccio colpire solo di rovescio, mi apro il campo sul suo dritto sorvegliando il mio lato destro, che se lui colpisce lungolinea sono pronto a scattare e a incrociare alto col dritto sul suo rovescio. Riesco a vincere i game in battuta con relativa facilità, sul 3-2 chiudo con un vincente in contropiede il primo set. Sono a un passo dal farcela, e forse sono finalmente convinto che posso farcela, d’altronde il primo mini set l’ho vinto io, no? 

Riesco a fare il break subito nel secondo mini-set, e ancora una volta vado in vantaggio 2-0. Che diventa 3-0 poco dopo, che diventa 3-0 40-15 un altro pochino dopo: sono tre matchpoint considerato il killer point. È quasi fatta. Il primo matchpoint lo sbaglio male, neanche ricordo come adesso ma dev’essere stato un colpo ciofeca. Sul secondo giochiamo un lungo scambio, alla fine lui viene a rete attaccandomi sul rovescio, io rimando fortissimo ma centrale, al corpo, lui è bravo a salvarsi con una volée a metà campo, io arrivo con facilità in corsa, è un dritto facile da mettere in lungolinea e chiudere la contesa. La palla esce di mezzo metro: pura tensione emotiva. Riesco a fallire anche l’altro matchpoint sbagliando ancora un dritto, 3-1 per lui, che serve con ritrovato coraggio e si porta sul 30-0 con due vincenti. 

Invece di pensare a servire sul 3-2 nel game seguente, mi dico di non mollare facilmente questo game per non dargli troppe sicurezze. Faccio un punto, poi con un vincente pareggio sul 30 pari. Giochiamo un altro scambio lungo e riesco ad avere la meglio: 30-40, ancora matchpoint. Mi serve sul rovescio e rispondo ordinato in lungolinea, profondo, lui mi ritorna la palla in mezzo al campo e qui inizio un forcing incrociato sul suo rovescio. Al terzo dritto incrociato, il più forte per intensità e top spin, la palla non torna. Quando la vedo morire sul telone mi libero dal giogo delle emozioni: è una sensazione bellissima, e per provarla bisogna giocare i tornei. 

Parlo un po’ con questo diciottenne, cerco di consolarlo, mi dice che era un po’ teso. Non gli cambiava niente questo torneo, a me invece molto. Peraltro a me neanche è finito il torneo, al turno seguente gioco contro un ragazzo che ho battuto qualche mese fa in due set normali. Gioco con l’animo leggero di chi è poco interessato alle sorti del match, è sabato mattina e se vinco mi tocca tornare pure nel pomeriggio. Vado in vantaggio 4-0 nel primo set e 3-1 nel secondo, uno smash facile buttato a rete mi nega la vittoria. Lui prende fiducia, comincia a “incartarmi” la partita, cioè farmi giocare male.

Le palline fanno schifo anche qui, ha piovuto la mattina presto è il campo è molto umido. La palla mia non cammina più, pur essendo sempre in vantaggio non riesco a giocare con la sufficiente attenzione per chiudere la partita. Perdo il secondo mini set al tiebreak e vado al terzo. Sono di nuovo sul 3-1 per me, ho un altro matchpoint: tiro un dritto senza pretese fuori di un metro. Lui recupera e vince di nuovo il tiebreak finale, io sono contento per lui, forse il ragazzo più bravo e gentile che ho incrociato sul campo da tennis quest’anno. Ci avevo parlato un mese prima e mi diceva che era molto distratto dall’università, poi questa cazzo di pandemia che rompe il cazzo più ai ragazzi che a noi vecchi di merda. Mi aveva fatto tenerezza, se lo merita lui il 2.7 del sabato pomeriggio, quando all’accademia ci saranno tutti i migliori di Roma. Io sarò vicino casa a portare a passeggio il cane con la famiglia. “Adesso basta con questi tornei, hai rotto il cazzo” mi aveva detto mia moglie al mattino “salutandomi”. Forse a questo pensavo durante i matchpoint.


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