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La vita senza tennis

L’ultima volta che ho giocato a tennis, sembra una vita fa. 

L’ultima volta che ho giocato a tennis, sembra una vita fa. 

Me la ricordo bene, ero uscito dal campo contento. Avevo giocato bene pareggiando il conto dei game con un pari classifica ma di dieci anni più giovane, che quando passi i 40 è una cosa che conta, diciamo. Il dritto finiva in campo dove la testa pensava, il rovescio era la solita sentenza e le volée riuscivano una volta sì e due no, come al solito. Io e la mia nuova racchetta ci sentivamo come i fidanzatini dopo i primi bacetti, tutto va bene e chissà cosa combineremo insieme col tempo. C’era il sole, poi, era una di quelle giornate in cui a Roma è estate pure se è inverno e con la luce del sole che illumina diversamente, chi ci vive conosce ‘sta magia. 

Con le giornate che cominciavano ad allungarsi mi sentivo pronto per esordire nei tornei. Poi la tragedia, e non era il Covid. Due giorni dopo quella domenica mi faccio male giocando a calciotto, mi dispero pensando a quanto dovrò stare fermo ma poi, ad alleviare il mio dolore, arriva il lockdown totale: il tennis si ferma, tutto il mondo si ferma. Il circolo tennis chiude, tutti devono rimanere in casa. Per me è una magra consolazione: io devo stare fermo per infortunio, adesso anche gli altri dovranno fermarsi. Che pezzo di merda. 

Mi sveglio una mattina e Indian Wells è cancellato per paura del virus. La situazione si fa drammatica: se non si gioca in California probabilmente non si giocherà da nessuna parte. Come una biglia che colpisce il primo pezzo di un domino, lo sport più cosmopolita del pianeta cancella tornei, settimana dopo settimana. Lo schema è sempre il solito: 1) si pubblica un comunicato nel quale si annuncia che “stiamo valutando tutte le opzioni nel rispetto della salute degli spettatori…”; 2) si valuta l’opzione porte chiuse per salvare gli introiti dei diritti TV; 3) si annulla o rimanda il torneo per poi cancellarlo più in là nel tempo.

Il tennis scompare dai campi di tutto il mondo e per una volta Nadal se la passa come noi, sia campi con le tribune che quelli con le erbacce e le reti con i buchi sono chiusi. Per una volta, noi tennisti di periferia siamo nelle stesse condizioni dei nostri idoli: siamo chiusi in casa, e pazienza se le case dei pro hanno giardini, piscine e forse anche campi da tennis. Neanche loro potranno mostrarsi mentre giocano, pena la scomunica della comunità che soffre contro il virus. 

La prima settimana scorre che è un piacere, nessuno ci sta capendo niente. Sono le giornate dei balconi, dell’ultimo rifugio delle canaglie, le bandiere tricolori in bella mostra e delle chiusure di negozi e uffici. Tutto sommato è un’esperienza nuova, i bambini festeggiano la scuola chiusa, lo smartworking convince anche gli imprenditori più scettici che non hanno familiarità con le estrazioni di valore marxiste e i maestri di tennis possono stare di più in famiglia. 

Dopo un po’, mentre Netflix e compagnia bella cominciano già ad averci stufato, le notifiche WhatsApp sono sempre più frequenti. Cominciamo a scriverci con gli sparring partner. Sono chat dove in genere non ci sono convenevoli e ci si scrive direttamente “sabato dopo pranzo?”, “domenica alle 10?”; ora vedono materializzarsi messaggi tipo “ciao Manzo, come stai?”, “come va dottò?”. Dalla chat del circolo arriva un video messaggio con l’inno nazionale filodiffuso sui campi con ogni granello di terra al proprio posto e l’erba delle siepi curata. 

Alla seconda settimana la gamba mi fa ancora male più male della retorica nazional popolare che noi ci siamo, ce la faremo e andrà tutto bene, ma certamente. Giro sempre con le stampelle dentro casa, sogno di tornare a correre entro un mese dall’infortunio, in tempo per la fine del lockdown, che è fissato al 3 aprile. Dovrei andare a Monte Carlo a seguire il torneo, più che altro a cercare di vincere il torneo dei giornalisti, il mio unico pensiero è se guarirò in tempo. Succede che Monte Carlo viene cancellato come tutta la stagione su terra, il Governo estende il lockdown fino a maggio, cioè quando si doveva giocare il Roland Garros, che invece comunica: si giocherà a settembre. È il caos.

Anche lavorare diventa relativamente un problema: non c’è tennis da raccontare, ci sono solo appelli di giocatori e cosiddetti vip a rimanere a casa, pazienza se la nostra non arriva a 100 metri quadri, scrivere di tennis significa andare a vedere chi compie gli anni nei giorni a venire, ripescare qualche aneddoto e soprattutto sorbirsi su Instagram le dirette dei giocatori. Entusiasmante. 

Siamo oramai nel pieno dell’emergenza, telegiornali e quotidiani ritrovano il pubblico di una volta, vigili e poliziotti ogni giorno partono a caccia dei malfattori, si dimenticano di controllare le fabbriche  – a volte il caso – ma sono solerti e ubiqui, superati in durezza solo dalle guardie giurate dei supermercati, una nuova specie umana degna di studio. Si ferma pure il calcio, noi non possiamo più fare nulla: i runner sono trattati come membri dell’Isis e i cani hanno più diritti dei bambini, che pure dopo qualche anno imparano a pisciare in bagno. 

Ma torniamo alle chat. Manzo è il mio sparring preferito, nettamente più forte di me e non solo perché più giovane. Per vincere un game contro di lui devo giocare sempre col motore al massimo dei giri. Il più delle volte vado fuori strada. Poco prima dello stop era diventato ingiocabile, come diciamo in gergo, eravamo pronti per giocare anche l’over 35 per il circolo ma poi è saltato tutto. Ci scriviamo, ci aggiorniamo su come stiamo lavorando, lui più del solito, dice, però è fortunato ad avere non uno ma ben due cani e quindi può uscire quando vuole. 

Abitiamo vicino, i nostri palazzi sono divisi da un parco enorme che è stato chiuso dalla sindaca nella lotta ai terroristi con le scarpe da ginnastica. Una parte del parco è però aperta, è quella “in prossimità della propria abitazione” nella mia interpretazione dei decreti governativi, è lì che ogni giorno vado a passeggiare con il piccolo di casa ed è lì che un giorno lo incontro. Manzo è la prima persona che vedo dal vivo dopo settimane, cioè la prima che avrei abbracciato o salutato. Invece quando ci vediamo siamo schierati come due squadre di calcio al fischio d’avvio. Io e famiglia da una parte, lui moglie e due cani dall’altra. Parliamo a qualche metro di distanza, ci confortiamo.  “Ah ma cammini, quindi!”, mi fa. 

Infatti ho riconsegnato da qualche giorno le stampelle, a tre settimane dall’infortunio. Ho bisogno però di muovere le gambe tutti i giorni, devo riacquistare l’equilibrio perchè cammino completamente sbilanciato e non riesco a mettere peso sulla gamba destra, che ora almeno riesco a poggiare. Ci vuole una settimana circa affinché io possa tornare a camminare come al solito, una sensazione di normalità ritrovata, la gioia ai tempi del Covid-19.

La chat del calcio intanto impazzisce. I messaggi classici, “Graz solita ora a Gardenie?”, “maglia de che colore?”, sono rimpiazzati da semplici bestemmie, foto di bottiglie di vino svuotate e sbrocchi di chi è in astinenza. Non solo da calcio. Noi, quelli delle videocall da prima, adesso ne abusiamo. Cerchiamo di allietare chi è confinato da solo in casa, ma è dura. 

Dentro casa non c’è uno spazio per fare due tiri a tennis. Il balcone è microscopico, mi ci affaccio ogni giorno a ora di pranzo per godermi il sole rosicando di non abitare nella palazzina di fronte, dove c’è uno che abita al piano terra e ha un terrazzo mattonato che io avrei attrezzato come un circolo dei tempi di Covid: mini tennis e ping pong. Invece quello calpesta quel ben di dio per bagnare le piante. 

Guardo le mie braccia, bianche ariane. A quest’ora sarebbero dovute essere almeno mulatte. A Roma non piove da giorni, “dio quante giornate stiamo sprecando” è il primo pensiero del mattino. Quando cammino per casa ogni tanto mi fermo di fronte alla sacra nicchia, la parte alta di un armadio dove sono riposte le racchette. Ne prendo una, faccio un paio di volée in aria, annuso le corde. Delle tre nuove racchette, due erano pronte per il torneo: corde nuove, qualche granello di terra sul passacorde, il grip immacolato, l’odore del tennis. Non hanno neanche un graffio e sono lì a prendere polvere. E c’è gente che crede di essere triste.  

Siamo ormai a oltre un mese senza tennis, si capisce che ancora manca molto. I maestri di tennis non guadagnano un euro da un mese preciso, un dramma vero. Non possono fare videolezioni come i personal trainer, non hanno modo di riciclarsi, devono solo aspettare e chiedere aiuto al governo. Non hanno un sindacato, un contratto e sono spesso sottopagati dai circoli, che li sfruttano per molte ore al giorno costringendoli a fare notte sui campi per guadagnare qualche euro senza dazio. 

Un sabato pomeriggio penso che sia giunto il momento di tornare a correre. Mi vesto da runner e inizio a correre per le vie del quartiere. Purtroppo dopo qualche centinaio di metri il polpaccio inizia a farmi male, forzo ancora un po’ e sento una fitta: non sono ancora pronto. Ci vorrà tempo. Sto qualche altro giorno fermo, il dolore cessa, rosico ma non posso stare fermo: l’unica soluzione è fare workout. 

Una sera mia moglie entra di soppiatto in camera attratta da un rumore che aveva felicemente rimosso dalla sua vita. “Eh mo che è? Chi gioca?”. “Nessuno, sto rivedendo degli highlights di partite vecchie, sai che c’è stato un periodo della mia vita in cui non seguivo più il tennis? Ne approfitto per rimettermi pari”. “E io non te potevo conosce allora?”. 

Sta finendo pure aprile, finalmente abbiamo una data: il 4 maggio. Una data per uscire moderatamente di casa, pare, del tennis ancora non si parla anche se la federazione ha pubblicato un decalogo di nove (vabbé) regole fra cui spicca quella di giocare col guanto, perché le palline potrebbero trasmettere il virus. Meglio ha fatto la Federazione americana, che consiglia di giocare con due tubi di palle numerate diversamente; ognuno deve toccare solo quelle della numerazione scelta a inizio gara e ripassare all’avversario, ovviamente solo con ausilio di scarpa e racchetta e senza toccarla con la mano, la palla numerata diversamente dalla propria. Al circolo da me “stappano” un tubo di palle in media ogni settimana. Ci sono dei senior player che con un tubo di palle ci fanno un anno intero. E giocano tutti i giorni. 

Manzo mi scrive preoccupato: “Retrocederemo di classifica!”. “Capirai, qui rischiamo di giocare a settembre”, gli dico. Eravamo pronti per i tornei, a sfidare in notturne post ufficio degli sconosciuti che, come noi, volevano solo sentirsi vivi in campo con l’adrenalina nelle vene cercando di prevalere, per esultare, abbattersi, compiangersi, riallenarsi e poi riprovarci, settimana dopo settimana, come quelli bravi. 

Passano ancora i nuovi venerdì, i sabati e le domeniche, le giornate che una volta erano tutto tennis, uscite e birre che invece adesso sono workout, casa e birre. Manca ancora qualche settimana alla fine del lockdown, così dicono, il tennis dei circoli dovrebbe essere uno dei primi sport a ripartire secondo la logica dei tennisti. Io intanto questo weekend provo di nuovo a correre, farsi trovare impreparati alla riapertura sarebbe imperdonabile. 


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